La missione pubblica di Gesù era un percorso ad ostacoli.
La bellissima preghiera di lode fatta da Gesù e rivolta al Padre, segue immediatamente dopo un sincero e drammatico suo lamento sulle città di Corazim, di Betsaida e Cafarnao (Cfr. Mt 11, 20-24). Gesù aveva preso consapevolezza che la sua missione fatta di predicazione e di miracoli tra le località situate lungo le coste del lago di Tiberiade sembrava praticamente fallita, perché la maggior parte della gente non si era convertita all’annuncio del Regno di Dio. Con dolore aveva constatato l’indifferenza religiosa che rendeva duro il cuore di quella generazione: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto» (Mt 11,17). Aveva denunciato i pregiudizi negativi da parte delle autorità religiose, sia su Giovanni Battista, sia su di lui: «È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: “Ha un demonio!” È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e peccatori”» (Mt 11, 18-19a). La sua missione era davvero un percorso ad ostacoli.
C’è un piccolo resto che ha colto l’essenza: i piccoli.
Non tutto però era perduto. C’era un piccolo resto di gente che fece commuovere profondamente il cuore umano di Gesù, guidato e illuminato dallo Spirito Santo. Gesù era umanamente affranto e sconsolato di fronte alla superbia e all’orgoglio di molti, a cominciare dai dotti e dai sapienti rabbini, cioè dagli esperti delle Sacre Scritture, pieni di sapere, ma chiusi all’accoglienza della rivelazione delle cose del Padre. Lo Spirito Santo in lui gli fece contemplare un piccolo resto di gente umile e povera, che egli identificò con una semplice parola: «piccoli». Illuminati dal racconto del giudizio finale di Mt 25, 31-46, «i suoi fratelli più piccoli», per Gesù, sono gli affamati, gli spogliati, i migranti forestieri, gli ammalati, i carcerati, coloro che le dure circostanze della vita hanno reso «stanchi» dal peso delle perdite che li hanno resi fragili, impotenti, «e oppressi» dal peso delle ingiustizie, causate dall’egoismo dei potenti, ingiustizie che hanno ferito la loro dignità umana.
Gesù non loda il Padre per il modo di comportarsi di tutti i poveri in generale. La maggior parte di loro rientra nella categoria delle folle che lo seguivano solo per sperare qualche miracolo per se stessi, o magari per avere la replica della moltiplicazione dei pani che risolveva in modo assistenziale il problema cronico della loro fame.
Gesù loda il Padre per quel piccolo resto di poveri che aveva capito profondamente l’essenza del suo essere Figlio in relazione al Padre a partire dalla loro condizione di povertà, di fragilità e di oppressione. Si tratta di quei «piccoli» rrimasti affascinati, non tanto dalla potenza dei miracoli e dalla sapienza delle parabole di Gesù, ma dal fatto che lui, potente in opere e parole, in mezzo a loro, dimostrava di essere costantemente in ascolto della volontà del Padre, esclusivamente obbediente alle cose del Padre. Si meravigliavano del fatto che «tutto è stato dato a lui dal Padre suo» (Mt 11, 27a), tutto ciò che Gesù diceva e faceva non gli apparteneva, proveniva dal Padre. Gesù non si vantava di possedere la sapienza e la potenza di compiere miracoli! Gesù si rivelava agli occhi di quel piccolo resto di «piccoli» come un consegnato, un “arreso”, uno strumento accogliente del dono meraviglioso di tutte le cose del Padre, proprio perché scorreva una comunione di profondo rispetto tra lui e il Padre: «nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio» (Mt 11, 27b). Il loro stupore aumentava ancora di più, diventava una meraviglia incontenibile di gioia, quando scoprivano che Gesù di Nazaret, proprio per quella sua umiltà di essere consegnato al Padre in atteggiamento di svuotamento di tutto se stesso per accogliere tutte le cose del Padre, si dimostrava «manso», cioè di una incredibile capacità di ospitare, ascoltare, rispettare la loro estrema povertà, nonostante la loro condizione di peccatori, nonostante la loro dignità violata dalla durezza della vita e dal sistema umano e addirittura religioso dell’epoca, che li rendeva esclusi, emarginati, insignificanti, scartati, ultimi, dimenticati. Non erano loro ad essere andati incontro a Gesù interessati ad avere qualche vantaggio con i suoi miracoli o incuriositi per le sue parabole. Era Gesù che aveva preso l’iniziativa di venire incontro a loro, i peccatori più incalliti, di loro, i poveri più emarginati e sofferenti. Si stupivano meravigliati ed emozionati perché «l’umiltà di cuore» di Gesù, abbassandosi al loro livello, accogliendoli così come erano, nella loro povertà, attraverso i suoi gesti di ospitalità, di ascolto, di rispetto senza giudizio di condanna, rivelava loro la tenerezza, la fedeltà e l’abbraccio misericordioso del Padre. Così loro si sentivano figli amati del Padre, figli amati di Dio.
Gesù esulta nella lode al Padre perché soltanto quel piccolo resto di poveri e sofferenti, avendo colto la bellezza della sua relazione con il Padre e avendo scoperto il suo essere ospitale senza voler escludere nessuno di loro, poteva sperimentare il riposo, cioè quella pace del cuore proveniente dal sentirsi amati e rispettati dal Padre, al punto da poter pregare insieme a Gesù le parole del salmo, che abbiamo pregato insieme in questa domenica: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature. […] Fedele è il Signore in tutte le sue parole e buono in tutte le sue opere. Il Signore sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto».
Gesù cammina al mio fianco con il giogo leggero dello Spirito Santo.
Mentre i rabbini e i farisei, esperti di precetti e in nome della Legge, caricavano di sensi di colpa l’animo dei piccoli e la coscienza dei peccatori, Gesù diventava colui che cammina accanto ai piccoli, condividendo le loro fatiche e donando loro il giogo leggero e liberante del sentirsi già amati dal Padre nella loro condizione di povertà e di peccatori.
Lui, che veniva dal mondo rurale di Nazaret sapeva che nel tempo della preparazione dei campi per la nuova semina, chi aveva due buoi o due mucche, o due asini, poneva sulle loro spalle un giogo di legno, in modo che potessero camminare appaiati insieme e aiutare così l’agricoltore ad fare il solco nella terra con l’aratro. Chissà quanti gioghi di legno Gesù e Giuseppe avevano prodotto nella piccola bottega di falegnameria di Nazaret. Ebbene, Gesù loda immensamente il Padre per tutti i suoi incontri con i quei piccoli, con quegli ammalati, con quegli esclusi, con quei peccatori che si consegnarono fiduciosi a lui come lui si consegnava fiducioso al Padre. I vangeli ne raccontano tanti di questi incontri. Gesù è come il bue appaiato all’altro, che può rappresentare ciascuno di noi. Cammina al nostro lato nella fatica del vivere quotidiano, anche quando sbagliamo. Il vincolo che ci unisce, come il giogo di legno che univa i due animali al tempo della semina dei campi, è la nostra filiazione al Padre: Gesù è Figlio da sempre e per sempre obbediente alla volontà del Padre, noi siamo figli adottivi chiamati a scoprire la forza trasformante di questo amore gratuito del Padre, rivelato a noi per mezzo del Figlio, soprattutto quando è morto ed è stato risuscitato per noi e per la nostra salvezza. Siamo figli nel Figlio. Questo giogo del sentirci figli amati dal Padre nella nostra povertà è il dono gratuito dello Spirito Santo che abita in noi. Il Padre unito al Figlio nello Spirito Santo parla a noi oggi attraverso la lettera ai Romani scritta da san Paolo. L’apostolo delle genti non parla di giogo, ma parla di dominio. È la stessa cosa: «Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (Rm 8, 9).
Due sono dunque le proposte per la nostra vita, saziati dalla mensa della Parola di Dio di questa domenica.
La prima: scegliamo di «imparare da Gesù manso ed umile di cuore» scoprendolo oggi quanto sia vero che lui, il risuscitato, cammina al nostro fianco, sostenendoci nelle nostre fatiche di vivere da credenti, come fece con i discepoli di Emmaus. È nostro fratello quando ci sentiamo piccoli e incapaci di farcela da soli.
Gesù risuscitato cammina concretamente al nostro fianco come il bue affiancato all’altro, per mezzo del dono di alcuni fratelli e sorelle con i quali abbiamo la grazia di parlare delle cose del Padre, condividere la nostra esperienza di fede, perché ci lega insieme la scoperta del dono della Parola di Dio pregata, meditata, custodita nel cuore e nella mente.
La seconda: scegliamo di diventare come Gesù, disposti ad andare incontro a chi soffre più di noi, a chi attende di essere ospitato, accolto, amato da noi. Andiamoci con tutta umiltà, non cavalcando il cavallo del nostro bagaglio culturale, non pretendendo di essere i migliori, ma cavalcando l’asino della nostra mansuetudine, della nostra tenerezza, perché nella nostra vita siamo già stati convertiti dall’esperienza di esserci sentiti amati dal Padre, grazie al Cristo risuscitato che è venuto a visitarci caricandoci il giogo leggero e liberante dello Spirito Santo presente in noi, garanzia sicura del nostro essere figli nel Figlio.
diac. Vito Calella