Tra pochi mesi terminerà la misura sperimentale chiamata quota 100, la possibilità cioè di richiedere il pensionamento anticipato con 62 anni di età e 38 anni di contributi, operativa a partire dal 1° aprile 2019 Sgombriamo prima di tutto il terreno dalle inesattezze che circolano in questi giorni: la fine di quota 100 non significa che qualcuno ha deciso di cancellarla ma, semplicemente, che la norma (sperimentale) giunge alla sua naturale conclusione senza che venga rinnovata. Non è neanche esatto dire che si tornerà alla legge Fornero, perché la legge sulle pensioni varata durante il Governo Monti dall’allora Ministro Elsa Fornero, è tutt’ora valida ed è quella con cui la maggioranza dei lavoratori sono andati in pensione negli ultimi tre anni. Solo una piccola parte di lavoratori, infatti, ha usufruito di quota 100, una platea molto ristretta, composta per la maggior parte da uomini con una carriera lavorativa stabile e continuativa. I dati parlano chiaro: nel primo anno di attivazione (2019) sono state 193mila le domande accolte, meno di 74mila quelle nel 2020 e, pur con qualche variazione, anche per il 2021 sarà molto difficile che si raggiunga l’obiettivo dichiarato in partenza di raggiungere una platea complessiva nel corso del triennio di poco meno di 1milione di pensionamenti. Anche l’obiettivo di incentivare l’ingresso di nuovi soggetti nel mercato del lavoro, sembra essere fallito: la Corte dei Conti ha sottolineato come il tasso di sostituzione di quota 100, su cui ha influito certamente anche la pandemia e la conseguente crisi economica, sia intorno al 40%. Uno studio inedito del nostro Osservatorio Patronato Acli, infine, ci rivela quali siano state le motivazioni a spingere un lavoratore ad aderire a quota 100: quasi la metà del campione lo ha fatto “per dedicare più tempo alla famiglia” o per avere più tempo libero”, molto bassa (12%) è stata invece la percentuale di coloro che erano preoccupati per le “prospettive occupazionali del mercato del lavoro”. Dunque, c’è stata una platea di lavoratori disposta a perdere qualcosa in termini di assegno mensile, in cambio però di una qualità della vita più alta. Dovremmo ripartire proprio da qui per ripensare il nostro sistema pensionistico: perché oggi non si può scegliere di andare liberamente in pensione? Se un soggetto vuole utilizzare il proprio montante contributivo, anticipatamente, pure a costo di un importo pensionistico più basso, perché non può farlo? È chiaro che bisognerà bilanciare sull’assegno mensile, che diminuirà in proporzione all’anticipo pensionistico, ma credo che sia giunto il momento di cambiare prospettiva, ecco perché come Patronato Acli proponiamo, per riformare la previdenza italiana, alcuni cardini da cui partire: Equità, che oggi significa pensare ad un sistema pensionistico più giusto e che tuteli davvero tutti, anche attraverso norme accessorie. Quota 100, come abbiamo detto, è stata una norma indirizzata principalmente agli uomini, mentre le donne, che spesso arrivano alla pensione con una vita lavorativa fatta di lunghe interruzioni dovute alle gravidanze e al lavoro di cura domestico che spesso grava interamente sulle loro spalle, ne sono state praticamente escluse. Sulle diseguaglianze di genere in ambito previdenziale faremo una proposta specifica nei prossimi mesi ma mi preme qui sottolineare come sia necessario rendere almeno strutturale “opzione donna”, per contenere un allargamento della forbice tra trattamenti pensionistici che rischia di essere difficilmente contenibile. Equità vuol dire guardare a tutti, a uomini e donne, ai giovani che iniziano a lavorare, a chi ha carriere frammentate, a chi ha subìto un infortunio, a chi non è riuscito ad accumulare contributi che gli permettano di vivere dignitosamente. Equità come sinonimo anche di “ragionevolezza” e di “sostenibilità sociale”: non è equo, nel senso di ragionevole, e non è più sostenibile dalle famiglie e dai lavoratori, in un sistema di carriere sempre più frammentate e discontinue, imporre come traguardo di pensionamento anticipato 42 anni e 10 mesi di contribuzione, e come traguardo di pensionamento di vecchiaia per i giovani 71 anni di età. Flessibilità è l’altra parola chiave, e deve essere una modalità stabile e indirizzata a tutti i lavoratori: il montante che si accumula negli anni di lavoro è un tesoretto che il contribuente dovrebbe essere libero di utilizzare scegliendo se anticipare o meno la pensione.
Oggi ci sono regole molto rigide e tutte le norme di flessibilità sono temporanee (come quota 100, ape sociale e opzione donna) oppure selettive in quanto appannaggio di sole determinate e specifiche categorie di lavoratori (Pensione anticipata “precoci”, Lavori usuranti, Lavori gravosi, e ancora una volta Ape sociale e opzione donna).
La nostra proposta è di rendere universale e strutturale la possibilità di andare in pensione con flessibilità nelle scelte e ciò si tradurrebbe nel lasciare la libertà ad ogni lavoratore di uscire dal mercato del lavoro con un minimo anagrafico (tra i 63 e i 65 anni) e un minimo contributivo (che potrebbe essere di 20 anni), stabilendo nel caso una percentuale di riduzione della quota retributiva per coloro che vanno in pensione con il sistema misto. Questa riforma deve garantire una stabilità delle regole del sistema, perché la certezza del diritto è uno dei principi su cui si fonda la nostra Repubblica e non è pensabile entrare nel mercato del lavoro con una prospettiva di pensionamento che poi negli anni cambia fino ad essere totalmente stravolta. Superando a tal fine la politica degli interventi sperimentali, episodici, frammentati e transitori che ha caratterizzato la produzione normativa previdenziale degli ultimi decenni.
Tra le nostre proposte c’è poi anche l’obbligatorietà di un’iscrizione base alla previdenza complementare, uno strumento che potrebbe rivelarsi molto utile soprattutto per i giovani e per tutti coloro che si ritroveranno con il calcolo della pensione solo in base al sistema contributivo.
La nuova previdenza deve essere costruita intorno al contesto di ogni cittadino, come un vestito su misura, e non può continuare a basarsi su iniziative spot o piccoli rattoppi che di anno in anno avvantaggiano o svantaggiano questa o quella categoria. Oggi, in un momento storico in cui la nostra generazione vivrà peggio di quella che l’ha preceduta, dobbiamo avere il coraggio di ripensare alla previdenza, rendendola più flessibile, universale ed equa, perché da una buona previdenza deriva una buona qualità della vita.
Paolo Ricotti
Presidente nazionale Patronato Acli
INDAGINE PATRONATO ACLI SU QUOTA 100
L’EDITORIALE PUBBLICATO SU SOLE24ORE
Fonte: www.acli.it