Il racconto della moltiplicazione dei pani è narrato sei volte nei vangeli e per cinque domeniche consecutive la liturgia interrompe la lettura di Marco per proporlo alla meditazione del popolo di Dio, che è costituito tale grazie al dono del pane di vita. L’incontro tra la moltitudine e Cristo si compie, ma occorrerà tempo perché la relazione si trasformi in amore puro e gratuito da parte della folla, che all’inizio lo segue «perché vedeva i segni che compiva sugli infermi». Lo sguardo di Gesù invece è diverso, è come quello di una madre che, prima ancora che i figli esprimano un bisogno, già lo conosce e ne anticipa la realizzazione. Egli è intento a parlare con i discepoli ma capace contemporaneamente di guardare altro, volgendo gli occhi sulla realtà intera che, essendo «vicina la Pasqua», attende di essere liberata dalla schiavitù della contingenza. Noi il più delle volte ragioniamo al contrario, guardiamo l’altro cercando quello di cui abbiamo bisogno: un aiuto, una semplice presenza, qualcuno che ci faccia ridere. Quasi mai lo guardiamo per intuire ciò di cui lui ha bisogno. Gesù dunque, vedendo la folla, si preoccupa della sua fame e chiede a Filippo dove possono «comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare». L’esperienza di Filippo è la stessa che facciamo noi quando ci troviamo davanti a qualcosa che supera le nostre forze; come lui ci rendiamo conto di non avere quanto serve, di non essere abbastanza e, presi dallo scoraggiamento, ci paralizziamo. Filippo provvidenzialmente non era solo e aveva qualcuno che camminava con lui perché, lì dove noi vediamo un ostacolo, altri che ci stanno accanto possono aiutarci a cambiare prospettiva. Andrea in fondo fa esattamente questo, cambia logica, invece di guardare a quello che non c’è, guarda a quello che c’è, ma anch’egli arriva alla medesima conclusione: ciò di cui si dispone è troppo poco per un bisogno così grande.
Quante volte in tutto ciò che facciamo ci assale il tormento che tutto sia inutile, poiché avvertiamo la sproporzione tra quello che c’è da fare e ciò che possiamo fare. Quante volte sentiamo dire: ‘Sì, ma che posso fare io?’. Quegli incontri preparati con cura ma vissuti con leggerezza da chi vi partecipa, come possono essere utili? Quell’ora settimanale di catechismo come può fare la differenza? Quei pochi minuti passati a fare compagnia ad una vecchietta come possono eliminare la sua solitudine? Quella parola di conforto timidamente balbettata, come può alleviare il dolore di chi lotta contro la malattia? Proprio in questi momenti Gesù ci chiede di fidarci di Lui. Non siamo noi a dover fare miracoli, Egli non ci chiede questo! Però ci chiede di non impedire a Dio di fare miracoli. Quel poco che abbiamo, infatti, se lo teniamo stretto nelle mani, per timore che non sia sufficiente, diventa un vero ostacolo che impedisce alla sua grazia di agire e marcisce; se invece lo consegniamo al Signore, diventa canale di grazia e il miracolo avviene!
Il dono si compie attraverso «un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci». Tutto è nuovo: il pane ricavato dal primo cereale che matura, la giovane età di quest’uomo, la generosità del gesto. Sono iniziati i tempi nuovi, in cui se cinque pani e due pesci sono insufficienti per una grande folla, in realtà sono tanti per una sola persona. Bisogna partire dal dono di Dio ricevuto nella propria storia di vita e saperlo condividere con semplicità e gratuità; poi il Signore penserà a moltiplicare quanto condiviso. Un’altra dimensione umana emergente è quella dell’attesa fiduciosa della cura di Dio, segnalata dal richiamo ai pascoli verdeggianti su cui il pastore del Sal 23 nutre e fa riposare il gregge. Infine è necessario raccogliere «i pezzi avanzati», il sovrappiù che non va perduto. Il compito dei cristiani che si cibano dell’Eucaristia è proprio quello di suscitare nel prossimo il desiderio di un ‘sovrappiù’, di un pane che non perisce, e di cui il pane materiale e la totalità dei doni di Dio sono segno.
Se ci fermiamo ai doni materiali, che vengono pur sempre dalla Provvidenza, non progrediremo nel vero cibo che è la relazione d’amore con Gesù. Ora, nel cuore di ogni uomo vi è fame di Cristo, anche quando non la si riconosce, un frammento di desiderio di Dio che i credenti sono chiamati a riconoscere e orientare verso la comunità di fede, ove tutti i fratelli sono radunati attorno alla mensa eucaristica. Lì ogni pane, ‘frutto della terra e del lavoro dell’uomo’, ogni anelito, ogni storia faticosa e persino fallimentare, si trasforma in pane di vita.
Don Antonino Sgrò