C’è continuità, non soltanto con gli interlocutori, ma anche con le parabole del capitolo 21 che avevano come sfondo l’immagine della vigna, popolo di Dio. In questa parabola il tema del regno dei cieli trova come sfondo una festa di nozze, immagine dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Quel figlio che nella parabola della vigna era stato scartato e ucciso è diventato pietra di sostegno, per lui il Padre-re celebra le nozze-alleanza.
Al primo rifiuto degli invitati la chiamata si fa insistente raccontata con l’abbondanza come nella tradizione del rapporto tra Dio e il suo popolo: Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola (Pr 9,2).
Il secondo e definitivo rifiuto diventa drammatico, violento e cruento, dalle conseguenze catastrofiche, come catastrofica è l’infedeltà all’Alleanza. Forse, nella redazione di Matteo, si intravede la distruzione di Gerusalemme, vera catastrofe del popolo d’Israele, inizio della dispersione.
La festa è pronta ed altri saranno chiamati, anzi radunati dalle strade, dalle periferie delle città, buoni e cattivi. Nel regno c’è posto per tutti.
La sala delle nozze si riempì di commensali
Con linguaggio parabolico, Matteo ci dice che il disegno di Dio non può fallire, cerca altre strade, allarga gli itinerari, inventa percorsi nuovi. I primi destinati che hanno rifiutato l’invito vengono sostituiti da altri, non qualificati, persone qualsiasi; non ci sono eletti, non c’è un popolo privilegiato, tutte le nazioni sono invitate alla stessa festa di nozze: Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni (Is 25, 6-7).
Le vie del Signore sono davvero infinite e non si adeguano ai progetti umani; ci vuole poco per autoescludersi dal regno dei cieli, basta interessarsi al proprio campo o pensare ai propri affari, a tutto ciò che è proprio, basta rinunciare alla libertà della condivisione.
Il Signore che chiama esige la partecipazione alla festa; tutta la parabola si basa sull’accoglienza o il rifiuto dell’invito alla festa nuziale da vivere insieme. Coloro che sembravano esclusi sono raccolti; il verbo greco sunegagon ci annuncia il cambiamento, ci parla della nuova sinagoga fatta di buoni e cattivi, fatta da coloro che sono scovati nei crocicchi, negli angoli nascosti del nostro mondo.
La parabola dunque ci mette in guardia, chiede di verificare aspettative e percorsi della nostra vita di fede, ci chiede di abbandonare certezze secolari e trovare quelle vie che ci conducono nell’altrove, da dove Dio raccoglie i nuovi invitati: in una costante uscita verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio-culturali (EG 30).
Non indossava l’abito nuziale
La sala delle nozze si riempì di “cattivi e di buoni”, sembra che non ci siano discriminanti, tutti sono accolti indipendentemente dal proprio stile di vita. Questo la dice lunga sulla nostra idea di voler dividere il mondo, separare le mele marcie per preservare il resto del cesto, non è nostro compito (Cfr. Mt 13,49). In effetti ci è chiesto di essere figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5,45).
L’assemblea cristiana (la nostra Eucarestia) non è fatta per i giusti, al banchetto non sono chiamati solo i buoni, anche i cattivi che accettando l’invito hanno un posto all’evento nuziale.
La chiamata e la risposta alle nozze apre l’orizzonte della vita di comunione, sempre in divenire e mai conclusa. La condivisione della mensa è ingresso nella dinamica dell’alleanza con Dio in una circolazione di amore con lui e con il prossimo che sospinge alla carità, stimola la conversione.
Quando il re entra per vedere i commensali, si accorge di uno che non ha l’abito di nozze, quando poi non risponde alla sua domanda, ordina ai suoi servitori di legarlo e gettarlo fuori: è una immagine di estrema durezza che sottolinea la gravità di chi si è introdotto ma si sente sufficiente a se stesso e non è disponibile all’incontro, a riconoscersi negli altri, a condividere la stessa festa. Il gesto è dimostrativo: chi non ha indossato l’abito nuziale è legato mani e piedi, impedito a fare ed agire e si trova fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
La comunione esige di svestirsi dell’uomo vecchio e rivestire il nuovo (Cfr. Col 3,9-10). La semplice presenza nella sala del banchetto non basta per partecipare, l’appartenenza alla Chiesa non è un diritto da far valere comunque.
Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo (Gal 3,27); forse è questo l’abito che ci viene richiesto, il battesimo: l’umile e costante immersione nell’amore e nella misericordia di Dio, l’accoglienza del dono della vita che il Figlio ci offre gratuitamente.
Questa immersione ci rende compagne e compagni (cum-panis) capaci di mangiare lo stesso pane, di accoglierci reciprocamente, ognuno con le proprie diversità, ma con la stessa volontà di condivisione della fatica e della gioia, liberi di fare festa con chi tutto ci ha donato.
Don Luciano Cantini