La figura di Giovanni Battista svetta, accanto a quella della Vergine Maria, in questo cammino di Avvento. Egli è il testimone che annuncia la venuta dell’Atteso. Egli è l’amico dello Sposo che prepara la carovana degli invitati a nozze. Egli è il profeta che guida il popolo verso il passaggio definitivo alla sponda della Nuova Alleanza.
A suo dire, però, egli è soltanto una voce. Si presenta ai Giudei più nell’ottica della negazione che dell’affermazione di sé, più come fonte di delusione che di realizzazione delle aspettative. Sorprende questo suo atteggiamento, che sembra denigratorio. Certamente non è molto consono all’esaltazione esasperata dell’individuo a cui ci ha abituato la cultura pseudo – umanistica contemporanea. Ecco perché Giovanni emerge maestoso anche oggi: ben consapevole che egli dovrà diminuire, perché Gesù, il Messia, cresca, il Battista riconosce di valere qualcosa solo in riferimento a Colui che viene.
Egli infatti è voce perché Gesù è la Parola. In questo senso Giovanni ‘confessò e non negò’ (v. 20). Non si arrogò nessun titolo onorifico, nessun ruolo fuori misura, nessun merito inopportuno: ma si riconobbe semplicemente come un uomo in relazione a Gesù, totalmente orientato a Lui, con lo sguardo fisso al Maestro. Giovanni ‘confessò’ il Salvatore, ubicando se stesso al posto giusto. E la giustizia divenne così verità che libera.
Pensiamo a noi, e alla tentazione sfrenata di narcisismo di cui siamo vittime ogni giorno. Abbiamo un bisogno ossessivo di metterci in mostra, di esibirci e di essere apprezzati e riconosciuti. Abbiamo una brama affannosa di apparire nei mass media anche solo per poterci sentir dire: ‘ti ho visto’. E questa ansia di visibilità si traduce in una corsa spasmodica ad arrivare prima, a pubblicare per primi la nostra foto sui social network, a cogliere nell’immediatezza un dettaglio sebbene a migliaia di chilometri di distanza. Si perde il gusto dell’attesa, del silenzio, della scoperta gratuita. Si perde la calma e la trepidazione della gestazione.
Giovanni invece si ritira, al di là del Giordano, in luogo straniero. Si ritira nel deserto, vestendosi e nutrendosi nella più austera sobrietà. Non c’era nulla di attrattivo in lui. Eppure proprio questo, oltre a restituirgli la propria identità in relazione allo Sposo che viene, gli dona anche il rapporto più significativo con il suo popolo, con il gregge a cui egli stesso appartiene. Giovanni, infatti, non è una voce che grida da lontano, impartendo comandi e sentenziando vaticini spaventosi. Egli non è nemmeno un testimone che osserva distaccato le vicende della folla, che cammina smarrita e senza pastore.
Giovanni, invece, sta nel deserto con i suoi. Sta nel cuore della fatica più grande del suo popolo. Anzi, sta dentro la separazione e la frattura che la Legge di Israele ha generato tra i Giudei e i pagani, e in questa divisione – simbolo del dramma di una religiosità vissuta come giogo pesante anziché come liberazione – egli porta con gli altri il fardello doloroso della speranza. Giovanni può essere testimone non solo perché è in contatto con Colui che testimonia e si alimenta alla luce del divino che si intravede all’orizzonte, ma anche perché si immerge con coraggio nella notte e non ha timore a riconoscere dal di dentro le tenebre in cui vive l’umanità.
Per noi, spesso nostalgici di una illusoria fuga da ogni ombra che ci opprime, egli diviene profezia di uno stile di accompagnamento del dolore della gente. Essere cristiani che vivono le doglie del parto del Bimbo di Betlemme significa avere l’ardire di immergerci nell’aridità del deserto contemporaneo, riconoscendo la sete più o meno nascosta del popolo che si è allontanato da Dio. Noi siamo come un marito che si affianca alla sposa – alla Vergine – e non fugge l’intimità della sala da parto, dove si intrecciano l’amore più straordinario e il dolore più atroce. Decidiamo di stare lì, a contemplare il mistero che sorprende, sprovveduti e poveri, ma almeno vicini al piccolo che nasce come fossimo novelli buoi e asinelli. Almeno il nostro fiato impaurito potrà scaldare un poco la fragile carne del nascituro. E il nostro pianto di commozione – che fa melodia con il vagito del Bimbo – diviene il nostro canto, la nostra voce che si alza e si unisce a quella del Battista: ‘viene il Signore, preparate la via!’.
In questo Avvento Giovanni è per noi richiamo potente a recuperare il gusto e la responsabilità di una presenza. In mezzo al popolo che sta nella notte, lo Sposo, la Parola, il Bambino che viene ci chiede di esserci. E di esserci in stretta e manifesta relazione con Lui. Noi ci siamo, come uomini e come cristiani, perché siamo in attesa di Lui. E questo ci da’ fiducia e speranza. E questo accende in noi la luce, e di essa brilliamo condividendo con gli altri la luce.
Abbiamo già ricevuto tutto quello che ci serve: è l’olio dello Spirito, che ci è stato dato in dono, e che viene rinnovato nei piccoli vasetti della carità, attinta alla fontana della Grazia nei sacramenti. Abbiamo già ricevuto il battesimo di fuoco, che ci immerge nel cuore del Mistero di amore e dolore, trasfigurato da Dio in Gesù morto e risorto.
Poiché già abbiamo ricevuto, grati Lo attendiamo vigilanti, chiamati a essere testimoni fra chi ancora non lo conosce. L’attesa restituisce senso alla vita, mai più bruciata dai fuochi ingannevoli del ‘tutto e subito’.
don Luca Garbinetto