“Il gravissimo e sanguinoso attentato dell’On. Moro e la morte di cinque agenti della scorta sdegna e colpisce profondamente tutti i democratici e richiede immediati e radicali interventi contro il terrorismo dilagante e il disegno eversivo che lo sostiene. Se l’angoscia colpisce tutti i cittadini, occorre agire con la responsabilità necessaria per non fare il gioco di chi vuole il disordine e la disgregazione dello Stato”.
È il 16 marzo 1978, da poche ore le Brigate Rosse hanno rapito Aldo Moro. Sull’asfalto di via Fani, senza vita, i corpi dei cinque agenti della scorta del presidente della Democrazia Cristiana. Le Acli, in preda allo sgomento come tutto il Paese, diffondono nel pomeriggio un comunicato stampa in cui invitano il popolo italiano a stringersi intorno alle istituzioni democratiche.
Il giorno successivo, 17 marzo, la Presidenza Nazionale riunita d’urgenza, approva un documento politico: l’associazione si mobilita a fianco di tutte le forze che si battono per la difesa e lo sviluppo della democrazia.
Interessante l’analisi, contenuta in un dettagliato comunicato stampa, che spiega la scelta di rapire di Moro: “La scelta dell’On. Moro come bersaglio risponde a una precisa logica. Con Moro si colpisce oggi non solo uno dei protagonisti maggiori dell’intesa tra le maggiori forze politiche che ha permesso la conclusione della crisi, e insieme una concezione della politica intesa come evoluzione dei rapporti tra le forze in campo, senza cristallizzazioni definitive e quindi aperta ad ogni sviluppo democratico. Con lui si colpisce la DC, nella delicata fase di ricerca di nuovi equilibri politici aperta con le elezioni del 20 giugno 1976; ricerca che, nel misurato realismo dell’On. Moro, ha trovato il suo punto di riferimento più significativo. Chi ha ucciso e rapito lo ha fatto quindi anche per ributtare indietro la situazione nell’intento di indebolire la natura democratica e popolare della DC e la sua funzione come perno essenziale contro il fascismo”.
Ad un mese esatto dal rapimento, il 16 aprile 1978 si riunisce il Consiglio Nazionale delle Acli. Nella sua relazione, il Presidente Nazionale Domenico Rosati ribadisce la cosiddetta linea della fermezza. Contemporaneamente, però, si dichiara disponibile “per la salvaguardia della persona umana” a “fare quanto ci possa essere consentito di fare per salvare la vita dell’On. Moro”. In pratica, le Acli si mettono a disposizione per svolgere un ruolo di mediazione.
“Non basta aver promosso, come noi abbiamo promosso, iniziative in tutti i circoli, in tutte le nostre realtà di base per discutere il problema della difesa e dello sviluppo della democrazia nella condizione attuale. C’è da fare, c’è da fare ogni giorno. E c’è da fare anche oggi, nel momento in cui il comunicato n.6 delle Brigate Rosse ci annuncia che, alla fine di un assurdo processo all’on. Moro è stata comminata la pena di morte. Sappiamo che la DC si accinge, di fronte a questa minaccia, a lanciare un appello umanitario. Si è precisato che ciò non attenua la posizione di fermezza nei confronti delle Brigate Rosse, nel senso di una esclusione di una trattativa a livello di interlocutori politici. Un appello umanitario per salvare una vita. Dobbiamo grande rispetto a questo atteggiamento. Ma credo che dobbiamo fare qualcosa di più, come ACLI. Proprio perché non siamo un partito politico ma un’associazione basata su un’ispirazione che mette la salvaguardia della persona umana al centro della propria visione politica, dobbiamo dichiarare la nostra disponibilità a fare quanto ci possa essere consentito di fare per salvare la vita dell’on. Moro. Se ci saranno le condizioni chiederei al Consiglio Nazionale di confortare un atteggiamento di questo genere perché la Presidenza delle ACLI possa svolgere un ruolo in questa direzione”.
La Presidenza Nazionale riunita il 21 aprile, in seguito al nuovo comunicato n.7 delle Brigate Rosse rilasciato il 20 aprile – in cui i terroristi prendono in considerazione il rilascio di Moro in cambio della liberazione di “prigionieri comunisti” detenuti in carcere – ribadisce il suo fermo no alla spirale del ricatto: “Accettare i contenuti di questo ricatto-ultimatum significherebbe entrare in una spirale da cui la Repubblica democratica non potrebbe più sottrarsi”, si legge nel comunicato stampa.
“Di fronte all’agghiacciante comunicato-ultimatum delle Brigate Rosse la nostra coscienza impone la ricerca di ogni iniziativa possibile per il dovere che tutti abbiamo di contribuire alla salvezza di ogni vita. Condividiamo perciò il travaglio e l’impegno per la salvezza della vita dell’on. Moro. Ma la nostra coscienza ci impone anche di dire no al contenuto della richiesta dei brigatisti. Vogliamo essere chiari: non si tratta di tener fede ad un concetto astratto di “ragion di Stato”, ma di tutelare le basi che sono a fondamento della nostra convivenza civile. Accettare i contenuti di questo ricatto-ultimatum significherebbe entrare in una spirale da cui la Repubblica democratica non potrebbe più sottrarsi: si aprirebbe un processo in cui ogni vita potrebbe essere giocata contro altre vite e insostenibile sarebbe l’onere richiesto a tutti i cittadini per fare il proprio dovere.”
Il 9 maggio 1978 viene ritrovato, all’interno di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, il corpo senza vita di Aldo Moro. Ecco cosa scriveva cinque giorni dopo su Azione Sociale il presidente delle Acli Domenico Rosati: “Ma non dobbiamo cedere all’emozione e allo sgomento. Non dobbiamo permettere che passino suggestioni pericolose come quella che vorrebbe seppellire, insieme a Moro, la capacità vitale della Repubblica italiana. Le ACLI hanno già ribadito questa volontà di resistenza e di tenuta, di unità, di partecipazione e di responsabilità. Sono le condizioni per sradicare il terrorismo. Sono le condizioni per rinsaldare la concordia e l’unità indispensabili per affrontare un passaggio tanto difficile e tragico della nostra vita nazionale. Se questo messaggio non viene disperso, se le forze vive del Paese, che sono la sua stragrande maggioranza, se i lavoratori e le masse popolari non si arrendono di fronte alle tentazioni del disimpegno, non avrà senso parlare di morte della Repubblica. Se è vero che Aldo Moro è stato ucciso perché, nella ricerca dei nuovi equilibri possibili e necessari, intendeva salvare la vitalità di questa Repubblica e della sua Costituzione, il suo sacrificio non può essere stato vano. Sta a noi e a tutti i democratici – è spaventoso doverlo riconoscere – dimostrare di saper difendere e sviluppare questa Repubblica e le sue istituzioni anche senza la guida e il magistero vivente di un uomo come Aldo Moro”.
Il prossimo 4 maggio le Acli ricorderanno la figura di Aldo Moro e i terribili 55 giorni della sua prigionia nel corso di un convegno che si terrà a Roma nell’Istituto dell’Enciclopedia italiana. Proprio dietro via Caetani.
(Ricerche a cura dell’Archivio storico delle Acli e della Fondazione Achille Grandi)
Fonte: www.acli.it