In questo racconto Gesù appare innanzitutto come il “passatore” di frontiere: cammina con i suoi attraversando la Galilea, passando alle città fenice di Tiro e Sidone, fino alla Decapoli pagana. Il cammino di Gesù, l’uomo senza confini, è come una sutura che cuce insieme i lembi di una ferita, alla ricerca di quella dimensione dell’umano che ci accomuna tutti e che viene prima di ogni divisione culturale, religiosa, razziale.
Gli portarono un sordomuto. Un uomo imprigionato nel silenzio, una vita dimezzata, ma che viene “portato”, da una piccola comunità di persone che gli vogliono bene, fino a quel maestro straniero, ma per il quale ogni terra straniera è patria.
E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più. Appartiene proprio alla pedagogia dell’attenzione la successione delle parole e dei gesti. Lo prende, per mano probabilmente, e lo porta via con sé, in disparte, lontano dalla folla, e così gli esprime un’attenzione speciale; non è più uno dei tanti emarginati anonimi, ora è il preferito, e il maestro è tutto per lui, e iniziano a comunicare così, con l’attenzione, occhi negli occhi, senza parole. E seguono dei gesti molto corporei e insieme molto delicati.
Gesù pose le dita negli orecchi del sordo: il tocco delle dita, le mani che parlano senza parole. Gesù entra in un rapporto corporeo, non etereo o distaccato, ma come un medico capace e umano, si rivolge alle parti deboli, tocca quelle sofferenti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa di vitale, che sta nella bocca dell’uomo insieme al respiro e alla parola, simboli dello Spirito. Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo di incontro con il Signore e «i sensi sono divine tastiere» (D.M. Turoldo). La salvezza passa attraverso i corpi, non è ad essi estranea, né li rifugge come luogo del male, anzi sono «scorciatoie divine» (J.P. Sonnet),
Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua del cuore; emettendo un sospiro che non è un grido che esprime potenza, non è un singhiozzo di dolore, ma è il respiro della speranza calmo e umile, è il sospiro del prigioniero (Salmo 102,21), è la nostalgia per la libertà (Salmo 55,18). Prigioniero insieme con quell’uomo impedito, Gesù sospira: Apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole, come si apre il cielo dopo la tempesta.
Apriti agli altri e a Dio, e che le tue ferite di prima diventino feritoie, attraverso le quali entra ed esce la vita. Prima gli orecchi. Ed è un simbolo eloquente. Sa parlare solo chi sa ascoltare. Gli altri innalzano barriere quando parlano, e non incontrano nessuno.
Gesù non guarisce i malati perché diventino credenti o si mettano al suo seguito, ma per creare uomini liberi, guariti, pieni. «Gloria di Dio è l’uomo vivente» (Sant’Ireneo) l’uomo tornato a pienezza di vita.
Padre Ermes Ronchi