Presenza scandalosa del dolore e desiderio di esserne liberati. Ecco, in sintesi, la proposta delle letture.
Il libro di Giobbe è una tormentata meditazione sulla sofferenza del giusto; segna il superamento della convinzione (sbagliata) che una vita prospera e felice sia premio per coloro che sono buoni e temono Dio; mentre una vita di sventure, calamità, malattie sia castigo per gli empi. Una concezione questa molto diffusa nel mondo antico, ma presente anche oggi. C’è ancora chi mette in relazione di causa effetto tra colpa e sciagura, tanto che si dice: “Che ho fatto di male per meritarmi questo malanno?”.
Giobbe (Gb 7,1-4.6-7), colpito da ogni genere di disgrazia, alla ricerca di un senso che non trova, si scontra con il silenzio di Dio e con le formule consolatorie e inutili di tre amici. Al dolore innocente non c’è risposta. Giobbe “uomo di pena, non basta un’illusione per farsi coraggio” (Ungaretti).
Giobbe dà voce all’umana, universale esperienza del dolore, del “male di vivere” (Montale). Si ribella, grida a Dio la propria rabbia e impotenza, fino a maledire la vita, fino a bestemmiare; mostra così la legittimità della protesta, della contestazione da parte di chi si trova nella malattia, nella disgrazia, propria o dei propri cari. La reazione anche di collera di chi sta male è anche positiva, in quanto indica la non rassegnazione, non volerla dare vinta al male. E non va soffocata, ma va accolta: può diventare un momento del faticoso cammino di accettazione della crisi esistenziale introdottasi nella vita.
Oggi facciamo fatica ad avere un approccio realistico con la malattia e la sofferenza, catturati come siamo dalle immagini che celebrano la giovinezza, la bellezza fisica, la prestanza, l’efficienza, la spensieratezza: si tende a rimuovere il dolore dall’orizzonte della vita.
Tuttavia, almeno in certi momenti, “la notte si fa lunga e i nostri occhi non vedono il bene”, secondo le parole di Giobbe. Allora inevitabilmente si pone la questione del senso della sofferenza, di come vivere l’esperienza della malattia, della morte. Allora non è più possibile rimuovere i perché: perché il male? Perché il dolore? E poi, perché Dio, se è buono, non interviene? Non gli importa? Il grido lacerante dell’umano dolore, che attraversa la storia, trova un’eco in Dio?
Giobbe percepisce che c’è qualcuno al quale è permesso gridare il proprio desiderio di vita; qualcuno davanti a cui è possibile piangere, adirarsi, sognare. E l’invocazione “ricordati”, che conclude la lettura, è un appello a Colui che sta di fronte e non è indifferente. Nonostante tutto Dio rimane interlocutore, un “tu”.
E Gesù? Non dà risposte teoriche, a parole, al problema del male, della sofferenza, del dolore. “Non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici” (Bose). Non spiega, si coinvolge, si fa vicino: “Guarì molti che erano afflitti…” (Mc. 1,39-49). Non rimane indifferente; prova compassione; e lotta contro il male, cerca di farlo arretrare. Il dolore resta uno scandalo, e i miracoli di guarigione non hanno tanto lo scopo di eliminarlo, ma di rivelare il farsi prossimo di Dio ad ogni umano soffrire.
Pensate, un terzo del vangelo di Marco è occupato dagli incontri di Gesù con persone sofferenti.
“Il dolore è una porta: aprendola puoi trovare Dio o il vuoto, la vita o la disperazione” (K. Barth).
Quando “la notte si allunga”, la “porta del dolore si apre”, ci sia data una fede capace di trovare “Dio e la vita”. Una fede matura, anzi maturata, che non pretende guarigione o interventi miracolosi, non rinuncia a lottare per la vita, e non fa cadere nella disperazione e neppure nella ribellione.
Resistenza, dunque, ma anche affidamento e invocazione. Bello quel “ricordati” di Giobbe (ricordare = riportare al cuore): scrivi il mio nome sul palmo delle tue mani, sul fondo del tuo cuore.
La sofferenza chiede, quindi, a chi ha fede, di rimetterci nelle mani di Dio, come Gesù sulla croce: “Padre, nelle tue mani affido la mia vita” Lc.23,46).
Ma, insieme, chiede a tutti, anche a chi fede non ha, mani che si tendono ai fratelli.
“La suocera di Pietro era a letto con la febbre… Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva”. Alla lettera: “afferrandola con forza, stringendo forte la mano”; una presa forte che strappa la donna dalla sua posizione di malata; la “risuscita” (“fece alzare”, verbo greco “egheiro” è lo stesso usato per la risurrezione di Gesù), la rimette in piedi, la reintegra nella sua dignità di creatura, fatta per amare e servire. “Li serviva” (verbo greco “diecònei autois”). Per i rabbini il servizio e la frequentazione di donne erano sconsigliati,. Gesù sovverte regole e innova comportamenti.
Così la suocera di Pietro, “diacono”, diviene immagine di quanti, guariti da prostrazione, ripiegamento su se stessi, afferrati dalla mano di Gesù, si fanno “diaconi”, servi degli altri.
Noi oggi siamo la mano che Gesù tende a sollevare. L’espressione: “Ti do una mano”, è significativa. E’ bello sentircelo dire e ancor più ricevere “una mano”: fa superare la paura di essere soli, abbandonati; e consola, riaccende una speranza. L’abbiamo sperimentato tutti: quando qualcuno non fugge davanti al nostro dolore, ma stende la mano, si accosta, noi iniziamo in certo modo a guarire, diventiamo più forti nella prova, ed è già guarigione.
Una domanda: quale significato riusciamo a dare alla stretta di mano al momento dello scambio di pace? E’ un impegno a “dare una mano”?
Sentiamoci “afferrati” e “rialzati” dalla mano forte del Signore; e nella quotidianità, nella nostra settimana, ripetiamo, moltiplichiamo lo stesso suo gesto.
Un’ultima annotazione: Gesù non si lascia totalmente catturare, sedurre dalle folle che attendono guarigione: ”Al mattino si ritirò in un luogo deserto e là pregava”; cerca e trova spazio e tempo di solitudine e di silenzio per mantenere la sua relazione con il Padre. “Del resto: da dove Gesù attinge la sua forza? Da dove attinge la pazienza, la dedizione, l’abnegazione, lo spendersi? Da dove se non dalla relazione nutrita quotidianamente con il Padre?” (Bose).
Don Aldo Celli