Come giudichiamo il comportamento di questo padrone che non rispetta le più elementari norme di giustizia (Mt. 20,1-16)? Certo ci sorprende, ci mette a disagio. In fondo noi pensiamo come quei braccianti della prima ora: non è giusto che chi ha lavorato una sola ora riceva lo stesso salario di chi ne ha lavorate 12. Doveva ricevere un dodicesimo di un denaro (un denaro era la paga giornaliera).
Secondo la giustizia retributiva si deve dare a ciascuno secondo quello che si è guadagnato, secondo i suoi meriti: chi merita di più deve avere di più, chi merita di meno deve ricevere di meno. In un tempo come il nostro dove tutto viene scrupolosamente calcolato e mercificato, l’atteggiamento del padrone, il quale, in contrasto con l’etica capitalistica, mette in crisi la comune logica retributiva, ci pare assurdo, paradossale, scandaloso, così come la conclusione della parabola: “Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi”.
E’ un capovolgimento, un’assurdità!
Eppure Dio agisce così. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre, i miei pensieri i vostri” (Isaia 55,6-9). Dio è “oltre” ciò che si sa e si dice di lui. La distanza tra pensieri di Dio e pensieri umani va salvaguardata perché impedisce l’operazione perversa di identificare i pensieri umani con quelli di Dio e quindi libera dalla più terribile presunzione, quella religiosa, di conoscere a pieno chi è Dio e cosa vuole. Si sono perpetrati misfatti al grido di “Dio lo vuole!” Invece Dio si cerca: “Cercate il Signore… mentre è vicino”, invita ancora Isaia. Cercare è l’atteggiamento fondamentale che ci fa credenti. Il Signore si cerca, non si possiede, sfugge ad ogni tentativo di catturarLo. E’ vicino certo, e lontano insieme; e non c’è contraddizione: accanto, ma da ascoltare e da scoprire come altro da noi. Non corrisponde mai del tutto alle nostre rappresentazioni. “Cercare il Signore”, dunque, per conoscere un po’ di più la sua mentalità e seguirla e cambiare i nostri pensieri e le nostre vie, tanto diversi dai suoi.
E così anche la giustizia di Dio: va “oltre” la nostra giustizia. Dio ha altri parametri, altri criteri di giudizio, rispetto ai nostri: i nostri sono caratterizzati dalla meritocrazia, dal “do ut des”, i suoi dalla gratuità.
Dice il padrone ai braccianti della prima ora: “Tu sei invidioso (alla lettera: “il tuo occhio è cattivo”) perché io sono buono?”. Ciò che scandalizza è l’uguaglianza di trattamento: “Li hai trattati come noi (alla lettera: “li hai fatti uguali a noi”). Il problema è la solidarietà che dovrebbe unire gli operai fra di loro. “Occhio e cuore cattivo”: se i primi operai avessero un cuore buono, da fratelli, sarebbero contenti della generosità del padrone, gioirebbero nel vedere che i loro simili, poveri e in difficoltà come loro (braccianti giornalieri), hanno ricevuto il necessario per vivere.
Capita di ritenerci primi, giusti, dalla coscienza pulita, di fermarci al compiacimento eccesivo per i propri meriti, per la nostra cultura, i nostri privilegi e di non godere del bene altrui, anzi a volte perfino di soffrire del bene altrui? C’è un proverbio: “Se l’invidia fosse febbre, tutto il mondo brucerebbe!”
Il nostro “occhio è cattivo” quando guardiamo unicamente alla logica meritocratica.
Quanti bravi cristiani non tollerano che l’ultimo arrivato sia trattato bene, abbia diritto al lavoro, alle cure mediche, alla casa, alla scuola; quanti, credendo di essersi fatti da sé, difendono i loro privilegi e non accettano che il loro benessere raggiunga anche i poveri, perché non lo hanno sudato!
Ma in quale Dio crediamo? Il Dio biblico è “buono”, è grazia, è misericordia, è gratuità. Attraverso Gesù ha dichiarato la sua predilezione per quelli meno amabili, meno meritevoli: poveri, peccatori, perdenti, oppressi… E’ anche in questa parabola ribadito il criterio divino che fa esultare non i ricchi e i potenti, ma gli anawim, i poveri di Ihawè: Dio, come canta Maria, “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote”; agli occhi di Dio “gli ultimi sono primi e i primi ultimi”. La sua bontà verso tutti dovrebbe essere motivo di riconoscenza, non di mormorazione.
Nel nostro mondo, nel nostro “regno” si parla il linguaggio del dare e dell’avere, del vendere e del comprare, del guadagnare e del perdere; nel regno di Dio invece si parla il linguaggio dell’amore immeritato, della pura grazia, del perdersi per ritrovarsi, di “ultimi che diventano primi”. E noi a quale regno vogliamo appartenere?
Può sorgere una domanda: i criteri di giustizia di Dio, i metodi propri del regno di Dio, sono applicabili nel regno degli uomini, nella nostra società, nei rapporti sociali? Certo neppure il migliore sistema socio-economico può permettersi di pagare un’ora sola di lavoro con un salario di una giornata di otto ore. Ma è giusto, è umano un mondo in cui una persona vale solo per quanto produce? Nella società ci sono deboli e forti, sani e malati, capaci e disabili, produttivi e improduttivi. Ognuno non ha forse diritto ad un “denaro” giornaliero? Cioè a quei mezzi che garantiscono una vita dignitosa, degna dei figli di Dio?
Ad iniziare dal lavoro, di cui oggi tanto si parla. “Nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita” (Evangelii gaudium, n. 192)
La Parola di Dio invita, dunque, anche ad improntare i rapporti nella società alla gratuita, come premura per gli ultimi.
Ora alla Messa sentiamoci accolti da Dio, non perché noi siamo buoni, abbiamo tanti meriti, ma perché Lui è buono. E impariamo da Lui a stabilire rapporti gratuiti: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Date gratuitamente un po’ del vostro interesse, del vostro tempo per gli altri.
Don Aldo Celli