Mi sono chiesto spesso cosa significhi “convertirsi”. Sì, lo sappiamo: significa cambiare vita, significa smettere di compiere il male e iniziare decisamente a compiere il bene, significa cambiare prospettiva, cambiare punto di vista e mettere al centro della nostra vita la Parola di Dio. Questo, a livello teorico, cognitivo: ma…nella pratica? Un peccatore che si converte, vuol dire che da quel momento in poi smette di peccare? Vuol dire che la sua vita, dal momento della conversione (ammesso che la conversione coincida con un momento particolare, puntuale della vita di una persona) cambia radicalmente e diventa una vita fatta esclusivamente di opere buone?
Magari sarò eccessivamente disfattista, però preferisco pensare con sano realismo, piuttosto che essere talmente ingenuo da ritenere che una conversione comporti l’immediata irreprensibilità dei comportamenti della persona che la attua: per cui, io sono convinto – e credo che non sia difficile condividere questo mio pensiero – che chi si converte continua comunque a commettere sbagli nella sua vita, continua comunque a peccare e continua comunque ad essere condizionato dai limiti della natura umana.
Per questo, anche i pubblicani e le prostitute del tempo di Gesù, che ascoltando la predicazione di Giovanni Battista (dice il Vangelo di oggi) credettero alla sua parola, non è affatto detto che avessero – per questa sua parola – cambiato completamente la loro esistenza facendola divenire un’esistenza di irreprensibilità e di santità: altrimenti, non si spiegherebbe perché, arrivato dopo il Battista, Gesù si trovasse di fronte ancora un gran numero di pubblicani e prostitute che lo ascoltavano e spesso lo seguivano nei suoi spostamenti, al punto da attirare la rabbia e il mormorio dei farisei e dei religiosi del suo tempo. Ovvero, erano pubblicani e prostitute e continuavano, probabilmente, a rimanere tali. Ma di certo, qualcosa di diverso in loro era avvenuto: nell’economia del Regno di Dio, erano “passati avanti” agli irreprensibili religiosi ebrei loro contemporanei.
Cosa era cambiato, in loro? Cos’era avvenuto? In che cosa è consistita la loro conversione? Più in generale: a partire dalla loro vicenda, possiamo comprendere meglio che cosa sia la conversione? Io penso proprio di sì. Togliamoci innanzitutto dalla testa che convertirsi significhi non peccare più. Convertirsi significa cambiare direzione, cambiare prospettiva, cambiare modo di vedere le cose, al di là di quelli che continueranno ad essere o cesseranno di essere i nostri errori. Significa iniziare a guardare le cose da un altro punto di vista, e soprattutto verso un’altra direzione. Fino a quando lo sguardo sarà rivolto a noi stessi, alla nostra vita, e non si alzerà mai a guardare in un’altra direzione, dove – per chi crede – c’è un Dio che ama, che è giusto, che è misericordioso, che ci chiede sì di compiere la sua volontà, ma perché ci vuole bene e sa cos’è il bene per noi…ecco, allora dalla nostra misera situazione umana non ne usciremo più, e non ci sarà salvezza. Al di là della bontà delle nostre opere e della rettitudine delle nostre azioni: perché non è la formale irreprensibilità dei nostri comportamenti che ci salva, di fronte a Dio, ma la capacità di guardare verso di lui, consapevoli dei nostri limiti.
Tanto i pubblicani e le prostitute, quanto i farisei e i dottori della legge, sono peccatori; ma mentre i primi, di fronte al messaggio di salvezza del Battista e di Gesù, hanno il coraggio di alzare lo sguardo e di smetterla di rivolgerlo solo verso la propria sterile miseria (e per questo trovano la salvezza), i secondi continuano a ritenere che il loro sguardo rivolto verso se stessi e verso le loro opere perfette e giuste sia l’unica condizione per la salvezza, per cui non sentono neppure la necessità di convertirsi, cioè di guardare nella direzione del Dio misericordioso che ama l’uomo indipendentemente dalle opere che compie. Per questo non si salvano: perché – come gli operai della prima ora di domenica scorsa – ragionano con Dio come con un retribuitore automatico di grazie (“ti do tanto, mi devi tanto, possibilmente più che agli altri”), e non con un Padre che accoglie chi comunque sbaglia ma alza lo sguardo verso di lui.
Dio è proprio l’opposto di ciò che essi pensano: non mette al primo posto i primi, o meglio coloro che si ritengono tali in virtù delle loro opere buone (e che bisogno c’è, se già sono primi?), ma gli ultimi, coloro che sanno bene di essere ultimi, che sono ben consapevoli di aver detto di “no” a Dio in molte occasioni per poi riuscire comunque, alla fine, a fare la sua volontà, come il primo dei due figli della parabola. Allora, i pubblicani e le prostitute davvero “passano avanti nel Regno di Dio” ai dottori della legge e ai capi del popolo.
E non pensiamo al Regno “che verrà”: pensiamo al Regno di Dio oggi, a quell’insieme di spazio e di tempo, di relazioni umane vere e sincere nelle quali Dio privilegia e mette “davanti”, al primo posto, quelli che i regni di questo mondo mettono all’ultimo perché pubblicamente ed evidentemente reietti, prostituiti, venduti al male. Capaci, tuttavia, di “convertirsi”, di cambiare prospettiva, di guardare le cose in maniera diversa, ossia nella direzione in cui le guarda Dio.
C’è speranza che cambino anche coloro che si ritengono giusti di fronte a Dio, anche noi, operai brontoloni della prima ora, figli ruffiani che fingiamo di obbedire al Padre? Senza dubbio, ma lo sforzo è notevole, occorre uno svuotamento, una spogliazione totale, una kènosis, come dice Paolo nella seconda lettura di oggi riferendosi alla natura divina di Gesù. Diamine, c’è riuscito lui che non ne aveva necessità e l’ha fatto solo per lasciarci un esempio…vogliamo, una buona volta, metterci d’impegno e fare altrettanto?
Don Alberto Brignoli