Giorno dei morti. Giorno di memoria, di gratitudine, di speranza. Soprattutto di speranza.
Ce lo dice anche la sua collocazione subito dopo la festa dei Santi, nella quale abbiamo contemplato la “moltitudine immensa” dell’Apocalisse. Giorno di speranza!
Scrive Papa Francesco: “I primi cristiani dipingevano la speranza come un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata sulla riva del cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. Questa è una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato dove sono i nostri antenati, dove sono i santi, dove è Gesù, dove è Dio. Questa è la speranza che non delude”.
E tuttavia, come esclama il Siracide: “O mors, quam amara memoria tua!” Che tristezza il pensiero della morte! E preferiamo non farne “memoria”, non pensarci. Ma oggi ci siamo costretti: una costrizione salutare!
“Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi uomini abitiamo una città senza mura”, dice l’antico filosofo (Epicuro). La morte ci fa constatare la nostra precarietà e insicurezza. Sentendoci città senza mura, cerchiamo di costruirci protezioni e difese che, di fatto, ci allontanano dalla verità della vita e costituiscono un autoinganno.
Ecco, allora, la ricerca esagerata, ossessiva dello star bene e la rimozione delle questioni relative alla morte, al morire, ritenute sconvenienti, da evitare, da occultare. Non c’è spazio per considerare un valore esperienze problematiche quali la sofferenza, la vecchiaia, e soprattutto il morire, la morte. “La nostra epoca si limita a negare la morte, e con essa un aspetto fondamentale della vita. Invece di lasciare che la coscienza della morte e del dolore diventino uno dei più forti incentivi alla vita – la base della solidarietà umana e un’esperienza senza la quale la gioia e l’entusiasmo mancano di intensità e profondità – l’individuo viene costretto a reprimerla” (E. Fromm – Fuga dalla libertà).
Di conseguenza i comportamenti correnti vanno dal non-vedere (i bambini sono tenuti lontani), al delegare la gestione della morte a luoghi e a personale specializzati: alle imprese funebri si chiede tutto un apparato che abbellisca, renda meno inquietante la tragicità della morte. Per non dire degli stupidi, e a volte volgari, gesti scaramantici.
Tanta è la paura, forse più del morire che della morte, per cui cresce l’aspirazione ad una morte improvvisa, indolore, che non disturbi nessuno. Un tempo si pregava, al contrario: “A subitanea et improvvisa morte, libera nos Domine”. Dalla paura e dalla rimozione della morte deriva, sembra un paradosso, anche il bisogno di “curiosare” intorno alla morte e oltre la morte (evocazione dei morti…).
Si riscontra, a volte, anche un atteggiamento “stoico”: alcuni, in genere quando stanno bene, giudicano la morte un evento che fa parte del “ciclo naturale”: come si nasce, così si muore; che c’è di strano? Anzi si comincia a morire quando si nasce. Certo che è così. Lo sappiamo.
Ma il saperlo non acquieta, non ha mai consolato nel profondo nessuno.
La morte è un mistero, un mistero che provoca tanti interrogativi e rende tutti pensosi. Non si può sorvolare sul dramma del morire, sulle lacerazioni che provoca. Ed oggi, giorno dei morti, se non siamo superficiali, siamo invasi da questa pensosità, in cui cade benefica la Parola di Dio, il messaggio di Gesù: la nostra vita, ma anche la nostra morte è, per grazia di Cristo, un luogo di salvezza.
Al centro del messaggio cristiano sta un evento, la pasqua: la morte e risurrezione di Gesù. Egli è entrato nel buio della morte, ma l’ha attraversata verso la vita piena, appunto risorta. ”In Gesù Dio stesso subisce l’irrazionalità della morte. Dio si inserisce proprio là dove si spezzano i rapporti e le relazioni vengono meno… Dove tutte le relazioni sono interrotte solo l’amore ne crea di nuove” (Rahner).
L’amore è la forza della risurrezione. Gesù, vissuto per amore, morto per amore e, nell’atto finale di un amore puro, gratuito incondizionato al Padre e al mondo, ha fatto sbocciare nella morte la vita; perché l’amore è più forte della morte.
Ecco il solido fondamento della nostra speranza. Speranza che libera dalla paura della morte ed anche dalla paura della vita, di spendere la vita: “l’unica cosa necessaria e vitale è credere l’amore, vivere l’amore, fare della vita un atto di amore” (Bose).
E’ così che si sconfigge la morte; e fino da ora. “Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (I Gv. 3,14). Solo “chi non ama rimane nella morte”.
Saremo giudicati sull’amore, soprattutto agli ultimi; perché quello è l’amore più gratuito, disinteressato: non possono contraccambiare.
Il giudizio (Vangelo – Mt. 25,31-46)) verterà sui comportamenti ordinari: “Io ho avuto fame, sete, ero nudo, forestiero, malato, in carcere…. E mi avete soccorso. Quando mai ti abbiamo visto affamato …e ti abbiamo dato da mangiare….?”. Il giudice glorioso della fine ha il volto dell’indigente, dello indifeso, bisognoso… forestiero… Tutto si gioca nel quotidiano rapporto di accoglienza o rifiuto dei “più piccoli dei suoi fratelli”. Questi sono segno oggettivo della presenza umile e nascosta del Figlio dell’Uomo tra noi.
Giorno di speranza quello di oggi, giorno che ci richiama a ciò che è essenziale, alla verità della vita: quello che conta è amare!
Anche giorno di memoria e di gratitudine. Molto di quello che siamo lo dobbiamo a persone i cui volti scorrono davanti a noi e che, anche oggi come ieri, contempliamo nella moltitudine immensa dei santi. Persone che ci hanno amato. Un amore, una premura che ancora ci sorregge. Siamo loro grati.
La gratitudine diventa ringraziamento a Dio che ce li ha dati, a Dio dei suoi doni che ci hanno raggiunto e continuano a raggiungerci attraverso gli altri.
E chiediamo per noi una grazia davvero grande: di morire nella gratitudine e nella benedizione.
E per li nostri defunti: siano resi partecipi, secondo le parole di Paolo (Rm 8,14-23), di quella “gloria futura che dovrà essere rivelata in noi”.
don Aldo Celli