In questo campo di concentramento la mancanza di spazio è senz’altro la principale emergenza. Circa 2500 persone su 10.000 sono alloggiate nelle 215 casette che un tempo costituivano il nucleo del campo, e che prima delle deportazioni erano tutte abitate da singole famiglie. Ogni casetta ha due piccole stanze, a volte anche tre, una minuscola cucina con un lavandino, e un gabinetto. La porta d’ingresso è priva di campanello, sicché entrare diventa una faccenda molto sbrigativa. Aperta quella porta, ci si trova subito nel mezzo della cucina. Se si vuole far visita ad amici nella cameretta sul retro, si irrompe con una disinvoltura ormai abituale in quella sul davanti, dove la famiglia è giusto seduta a tavola o magari litiga o sta andando a letto, a seconda del momento. E da qualche tempo, poi, queste camerette sono spesso gremite di gente desiderosa di evadere per un po’ dalle grandi baracche.
Adesso gli abitanti delle casette sono alloggiati in modo principesco, per essere a Westerbork, e sono oggetto di invidia e di incessante assedio da parte degli altri. La grande, vergognosa miseria del campo comincia in realtà nelle mastodontiche baracche costruite in tutta fretta – in quelle affollatissime rimesse di legno piene di spifferi, dove le cuccette di ferro a tre piani si ammassano sotto un cielo incombente di panni, che centinaia di persone hanno steso ad asciugare. Quei poveri francesi non avrebbero mai sospettato che, sugli stessi letti da loro costruiti per la linea Maginot, ebrei esiliati in una qualche brughiera del Drenthe avrebbero sognato i loro sogni spaventosi. Ho infatti saputo che quei letti provengono dalla linea Maginot. Ora su quelle cuccette si vive e si muore, si mangia, si è malati, o si passa la notte insonne perché tanti bambini piangono ininterrottamente – o perché ci si continua a chiedere come mai non arrivino quasi notizie dalle molte migliaia di persone già partite dal campo. Sotto i letti sono sistemate le valigie, alle sbarre di ferro pendono gli zaini: gli unici ripostigli che abbiamo. Le altre suppellettili consistono in tavole di legno grezzo e strette panche di legno. Delle condizioni igieniche preferisco non parlare nel mio modesto resoconto, così Vi eviterò momenti poco gradevoli. Qua e là per quei vasti ambienti ci sono delle stufe: bastano appena a riscaldare le vecchine che, strette l’una all’altra, vi siedono intorno. Non ci è ancora ben chiaro come si dovrà vivere nelle baracche durante l’inverno. Tutti questi grandi depositi umani sono stati costruiti in mezzo al fango esattamente allo stesso modo, e sono per così dire arredati con la stessa sobrietà; ma lo strano è che, attraversando una baracca, si ha la sensazione di vagare per un quartiere povero e desolato, mentre un’altra baracca evoca ad esempio un quartiere residenziale della borghesia agiata. In realtà è una sensazione ancora più forte, è come se ogni branda, ogni tavolo di legno grezzo emanasse una propria atmosfera. Conosco un tavolo in una di queste baracche su cui di sera è posata una lanterna di vetro con una candela accesa, intorno siedono più o meno otto persone e quello è il cosiddetto «angolo dei bohémien››. Se poi si fanno pochi passi fino al tavolo più vicino, intorno al quale sono anche lì sedute più o meno otto persone – forse l’unica differenza è che al posto della candela c’è qualche pentolino sporco -, è come se si entrasse in un mondo totalmente diverso. Circostanze simili non sembrano produrre necessariamente persone simili.
Su quell’arido pezzo di brughiera di cinquecento per seicento metri naufragano anche diversi protagonisti della vita culturale e politica delle grandi città. Tutte le scene che li circondavano sono state bruscamente abbattute con un solo colpo di maglio, e loro se ne stanno, ancora un po’ tremanti e spaesati, su quel palcoscenico aperto e pieno di correnti d’aria che si chiama Westerbork. Intorno a queste figure sradicate dal loro contesto si può ancora respirare l’atmosfera di una vita irrequieta, e di una società più complessa di quella del campo. Vanno costeggiando il sottile filo spinato. Le loro sagome in grandezza naturale scorrono indifese lungo l’ampia distesa del cielo. Bisognerebbe vederli camminare laggiù…
La loro ben forgiata armatura – fatta di posizione sociale, prestigio e proprietà – si è sfasciata: a rivestirli, adesso, è soltanto l’ultima camicia della loro umanità. Si trovano in uno spazio vuoto, delimitato da cielo e terra, e dovranno riempirlo da soli con le loro potenzialità interiori – al di fuori di queste non c’è più niente. Ora ci si avvede che nella vita non basta essere un abile politico o un artista di talento, la vita richiede tutt’altre cose nella miseria estrema. Sì, è vero, siamo messi alla prova nei nostri fondamentali valori umani. E così crederete che io abbia raccontato qualcosa su Westerbork, con la mia lunga chiacchierata? Se provo a ricreare nella mente questa Westerbork -in tutte le sue sfaccettature e nella sua movimentata storia, in tutte le sue emergenze spirituali e materiali -, allora so di non esserci riuscita affatto. E poi, il mio è un resoconto molto parziale. Potrei immaginarne un altro, pieno di odio, amarezza e ribellione. Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti. E assenza di odio non significa di per sé assenza d’un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più facile e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma con ostinazione, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera.
*Dal Diario di Etty Hillesum, morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943
Fonte: www.acli.it