C’è una domanda che mi accompagna da tempo, e che oggi sento risuonare con forza: perché lavoriamo? Non “per cosa”, ma “perché”? È una domanda che non riguarda solo il reddito, ma il senso. Perché ci alziamo ogni mattina, perché ci spendiamo, perché resistiamo. Ecco, io credo che prima di essere cercatori di beni, siamo cercatori di senso. E il lavoro, quando è autentico, ci mette in cammino proprio verso quel senso.
Durante un recente incontro organizzato dalle Acli e dal Dicastero per lo sviluppo umano integrale, “Lavoro luogo di speranza”, ho ascoltato con attenzione le parole di don Bruno Bignami, che ci ha ricordato come il lavoro debba promuovere la vita delle persone, dei luoghi, delle comunità. «La speranza – ha detto – sta nella capacità di abitare la complessità». E ha ragione: viviamo un tempo in cui tutto sembra frammentato, ma solo uno sguardo ampio, capace di tenere insieme le questioni demografiche, giovanili, migratorie e formative, può restituire al lavoro la sua dignità e la sua funzione sociale.
Il Giubileo, in fondo, ci parla proprio di questo: di liberazione, di restituzione, di giustizia. Nella Bibbia, l’anno giubilare era l’anno in cui si restituivano le terre, si liberavano gli schiavi, si lasciava riposare la terra. Era un tempo di riconciliazione. Oggi, quel messaggio ci interpella con urgenza. Perché il lavoro, così com’è, spesso non libera ma opprime. È povero, insicuro, iniquo. I giovani lo vivono come promessa mancata, le donne come spazio di disuguaglianza, i migranti come invisibilità.
Eppure, nonostante tutto, io continuo a credere che il lavoro possa essere luogo di speranza. Non un’illusione, ma una fiducia che nasce dall’impegno per il bene comune. Papa Francesco, in un incontro con noi delle Acli, ha detto che il lavoro è «protagonista di speranza», perché ci rende parte di una comunità, ci fa sentire utili, ci permette di costruire qualcosa che va oltre noi stessi.
Suor Alessandra Smerilli, con la sua consueta lucidità, ha ricordato che «ogni lavoro deve essere cura». Non solo il lavoro di cura, ma ogni attività umana deve essere attraversata da attenzione, responsabilità, fraternità. È un principio che Papa Francesco ha ripetuto più volte: «La cura è lavoro, il lavoro è cura». E se il lavoro è cura, allora è anche relazione, è costruzione di pace, è riparazione del mondo.
Ma per far sì che questo accada, serve un’alleanza. Un’alleanza tra sindacati, da troppo tempo troppo divisi, associazioni, Chiesa, imprese, istituzioni. Don Bignami ha parlato di «alleanza sociale per la speranza» e io condivido pienamente. Nessuno ha le soluzioni in tasca, ma insieme possiamo costruire convergenze, dialogare tra differenti, ritessere il tessuto sociale. Anche tra noi, nel mondo sindacale e associativo, dobbiamo tornare a parlarci di più, a lavorare insieme, a mettere al centro le persone.
Il Giubileo del mondo del lavoro non è solo un evento. È un’occasione per cambiare rotta. Per ridare senso al lavoro, per renderlo davvero umano, giusto, dignitoso. Perché, come ci ha insegnato don Primo Mazzolari, «in ogni speranza si nasconde la Speranza».
E allora, ripartiamo da qui. Dal cuore. Dal senso. Dalla cura. Perché il lavoro che vogliamo non è solo un mezzo per vivere, ma un modo per costruire un mondo più giusto, più fraterno, più umano. Come ha ricordato Papa Leone, «sperare è testimoniare: testimoniare che tutto è già cambiato, che niente è più come prima». È una parola vissuta, ha detto, «che rompe la catena del male. È un nuovo tipo di forza, che confonde i superbi e rovescia dai troni i potenti». È questa la forza che serve oggi al mondo del lavoro: una forza mite, ma capace di risvegliare la dignità di ciascuno. È il messaggio del Giubileo: che la terra può davvero somigliare al cielo, se mettiamo al centro gli ultimi e costruiamo insieme un futuro di giustizia e di pace.
Emiliano Manfredonia, Presidente nazionale ACLI
Editoriale per Avvenire del 9 novembre 2025
Fonte: www.acli.it

