Il lavoro tra equità e giustizia sociale, vera frontiera di una società autenticamente libera

Nel giorno dello sciopero generale indetto da CGIL e UIL crediamo sia giusto fermarci a riflettere insieme su quanto si sta facendo o si dovrebbe fare in questi anni inediti e drammatici.

C’è un disagio crescente nella popolazione che non si può ignorare; un senso di vulnerabilità diffuso che ha radici lontane e che la tragedia della pandemia e le restrizioni conseguenti hanno certamente acuito, ma soprattutto hanno reso evidente e drammatico.  Nel contempo la stessa pandemia ci ha ricordato quanto sia preziosa e indispensabile la democrazia, non solo nelle sue libertà fondamentali e nella democraticità delle istituzioni, ma nel garantire universalmente quella giustizia e solidarietà sociale, che non devono essere un lusso per pochi ma, come ricorda la nostra Costituzione, sono un dovere per tutti.

È nella  vitalità della democrazia che oggi il Paese e il pianeta devono trovare la strada per trasformare in fatti la consapevolezza diffusa che nessuno si salva da solo: né come singolo, né come popolo, né come generazione, né come specie vivente.

Il dramma della povertà, che oggi colpisce anche chi lavora, ha come effetto ulteriore la paura e il senso di vulnerabilità che essa crea, veicola implicitamente ed indirettamente la consapevolezza che se fai un figlio stai giocando d’azzardo con la tua vita, blocca persone e famiglie nel desiderare e investire sul futuro. È questo il vero macigno sul costo della vita e sulla creazione di lavoro vero.

Per questo l’ingente mole di risorse e i positivi sforzi di pianificazione messi in campo con il PNRR e i fondi europei, troveranno senso solo se la politica saprà mettere in campo un riformismo che sia sociale: in caso contrario anche le migliori innovazioni detteranno una crescita ulteriore delle diseguaglianze e di quella selezione sociale, che certo non contrasta il pericoloso frammentarsi del tessuto civile, anche nei suoi legami più prossimi.

Da questo punto di vista le scelte attorno alla legge di Bilancio, nonostante diverse siano positive, destano più di una preoccupazione.

La riforma fiscale va fatta, ma in senso sociale. Si può fare impostando un sistema integrato dove far convogliare ciascuna informazione economica riguardante il contribuente, tra redditi imponibili e spese effettuate, che sia “sartoriale”  (dove ciascuno contribuisce, realmente, in relazione a quanto è in grado di generare e percepire in termini di reddito: chi guadagna un euro in più versa in misura maggiore di chi ne guadagna uno in meno) e andando a toccare i privilegi dei pochi che vivono di speculazione sulle rendite e sui flussi di capitali, approvando anche nuove misure urgenti (per esempio, la Tassa sulle Transazioni Finanziarie che attende da tempo uno scatto di orgoglio della cooperazione rafforzata europea). Solo con una vera progressività, una vera attuazione della Costituzione, con un’autentica lotta all’evasione e all’elusione (che non scenda a patti con i paradisi fiscali) si può di fatto e senza costi tagliare le imposte ai ceti medio-bassi e al lavoro.

Ci sembra, invece, che si rischi di procedere in un senso opposto, con una riduzione delle aliquote che poco servirà a dare solidità alla domanda interna e che, nella ricerca di una mediazione, rischia di fare eco alle richieste di quella flat tax che ha profili di incostituzionalità e che negli Stati Uniti ha garantito l’esclusione dalla sanità di milioni di persone e famiglie.

Gli 8 miliardi stanziati per la riforma dell’IRPEF, o poco meno, potrebbero invece essere subito impiegati su tre direzioni di marcia essenziali.

La prima: una strategia per riscattare il mondo del lavoro dal suo impoverimento economico e di tutele attive e passive, con conseguenze anche gravi sulla consistenza e l’inclusività della crescita.

Innanzitutto bisognerebbe investire su una più ampia riforma della Scuola, che aiuti ogni persona a crescere: una Scuola che, nonostante la buona volontà di tanti, è di fatto selettiva e nella programmazione complessiva ha perso  la vocazione ad essere il primo campo in cui si combattono le diseguaglianze; una Scuola che andrebbe reimpostata come sistema di istruzione e formazione professionale, che accompagni le persone anche in età adulta.

In secondo luogo è necessaria una strategia che non può declinare verso la scorciatoia del salario minimo, ma che deve vedere le parti sociali addivenire a un accordo forte sulla capacità di rappresentanza che imponga contratti veri e solidi per tutti, superando il quasi migliaio di contratti nazionali che sempre lasciano nel mondo del lavoro spazio a una sorta di far west.

La seconda: un investimento che punti a raggiugere un solido sistema di welfare e uno sviluppo sostenibile e sociale per tutti (paesi poveri e stranieri inclusi). Il costo della vita cresce anche perché è sempre più difficile essere genitori, essere anziani, essere semplicemente cittadini, in cui la fascia di ricchezza determina l’accesso a servizi e prestazioni essenziali. Ci sono obiettivi ambiziosi nel PNRR, specie sulle politiche attive, e in parte nella legge di bilancio, soprattutto dove si comincia a riparlare di livelli essenziali delle prestazioni, ma serve capire come, una volta finiti i fondi, si radicherà ovunque una infrastrutturazione sociale che sani tante profonde disparità, anche territoriali. E ancora molte cose non hanno una definizione completa, come il Reddito di Cittadinanza, le risorse per la Cooperazione allo sviluppo, i fondi per l’infanzia e il sociale.

La terza: occorre un più forte investimento già nel PNRR nell’economia sociale (oggetto di un importante piano europeo) e in tanti campi, legati a produzione di beni a impatto ambientale zero e forieri di nuova occupazione anche in questi anni difficili, come la cultura, la storia, il patrimonio paesaggistico, la ricreazione e lo sport sociale, l’agricoltura sociale… Dove può prevalere un’economia che cresce soprattutto prendendosi cura delle persone, dell’ambiente e delle comunità, e non facendo leva sul consumismo. Dove il paese cresce perché cresce ogni persona.

Riformismo sociale significa anche ricordarsi che la democrazia non è rinchiusa solo sulla centralità delle sue istituzioni: è urgente dettare una chiara scelta di coinvolgimento e convocazione delle comunità e dei corpi intermedi. Compreso il ruolo del Terzo settore, sul quale ci sono importanti passi avanti anche di parziale correzione e attuazione della riforma che lo ha coinvolto negli ultimi anni, ma anche controtendenze negative, come quella sull’Iva, frutto dell’arretratezza delle norme europee. La sussidiarietà è spesso male interpretata come semplice protagonismo del mercato e del profit oppure chiamata in causa solo per tappare buchi o per trovare un fornitore da mal pagare.

Ecco perché, in ultimo, ma non ultimo, queste ragioni, espresse in modo diverso da più parti, reclamano quanto prima un’azione e un cammino sempre più unitario del sindacato. Perché il lavoro è il luogo e l’esperienza umana dove purtroppo l’economia globale detta la crescita delle diseguaglianze, imponendo una distribuzione e una gestione della ricchezza prodotta sempre più appannaggio di poche migliaia di persone e di un’economia che estrae valore dal territorio e dalla società molto aldilà di ogni legittimo profitto e guadagno. Lì continua a giocarsi con forza la frontiera di una società autenticamente libera.

L’esigenza pressante di equità e giustizia sociale deve trovare tutti consapevoli che il futuro o sarà sociale o non sarà. L’unità di ogni società non va confusa con l’unanimismo, ma va costruita giorno per giorno, col concorso e il confronto di tutti. Il pianeta e il suo futuro sono un posto per tutti e non per pochi.

Fonte: www.acli.it