Il libro del Deuteronomio -libro affascinante che evoca la marcia faticosa nel deserto e il dono inatteso di un’acqua da roccia durissima, di una manna sconosciuta ai padri- e la parola di Gesù: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”, ci salvano da un rischio che non è teorico: quello di ridurre la festa del Corpus Domini all’adorazione di un oggetto: una cosa da guardare estatici e immobili, quasi un reperto archeologico.
A volte ripenso a quella parola, piccola parola, con cui gli Ebrei hanno chiamato quel cibo inatteso dal cielo: Manna, manhu, che significa: che cos’è?
E penso che era come una domanda iscritta per sempre, quasi non ci fosse fine alle risposte, alla sorpresa: che cos’è?
E penso anche che la stessa domanda dovrebbe essere iscritta per sempre nell’Eucaristia. E ogni volta che la prendiamo nelle mani e ne mangiamo, chiederci: che cos’è?
Ripercorrendo la lettura del libro del Deuteronomio, potremmo innanzitutto dire che l’Eucarestia, come la manna, è dentro un cammino e dentro un ricordare.
Non è primariamente -voi mi capite- non è primariamente un fatto di tabernacoli, tabernacoli della chiesa. O sì, se tabernacolo significasse tenda, la tenda della sua presenza, che si alza e si sposta più in là, quando si parte -e ogni giorno si parte-. Allora sì: Eucarestia nella tenda, nel tabernacolo della vita.
Dunque l’Eucarestia è legata, come la manna, alla storia della nostra vita, storia di traversate; si esce ma non si entra subito. Si esce dall’Egitto, ma non è subito Terra Promessa.
E che cosa ti ricorda la manna? Che cosa ti ricorda l’Eucarestia? Ti ricorda che se vivi, se non sei morto di fame lungo i deserti della vita, se non ti sei fatto tu deserto, se non sei diventato tu terra inospitale, è perché è sceso qualcosa dall’alto.
È come riconoscere, confessare apertamente, pubblicamente, che se siamo vivi è per un Altro. È come riconoscere e confessare apertamente, pubblicamente, che se siamo sopravvissuti è per questo dono inatteso, che non è semplicemente un’ostia bianca, ma la presenza di Dio, di cui questa piccola ostia bianca è segno e tramite.
Voi mi capite: questo riconoscimento della nostra pochezza, questa confessione di umiltà: viviamo, sopravviviamo per un Altro.
E superiamo così un fraintendimento -ancora molto diffuso- che oggi scandalizza alcuni cristiani e li fa critici: critici nei confronti della lunga fila di coloro che la domenica si accostano alla comunione. E dicono: Ma che? Si sentono tutti santi? Tutti senza peccato?, tutti degni?
Ma l’Eucarestia non è per chi è degno: “Signore, non sono degno”: diciamo. L’Eucarestia è una confessione di debolezza e di umiltà. Non è sbandieramento di una virtù, è riconoscimento della nostra pochezza.
Qualcuno dall’esterno potrebbe prenderlo come un gesto magico: ma come, tu, uomo moderno, uomo evoluto, uomo disincantato, vai a prendere un piccolo pezzo di pane bianco?
Sì, sei uomo moderno, evoluto, disincantato e riconosci che vivi in forza di un dono che viene dall’alto.
Faccio un passo avanti: ma anche questa piccolezza insegna: una presenza, quella di Dio, legata a cose quotidiane, il pane, il vino, la tavola.
Ci ricorda, l’Eucarestia, che Dio non appare nei segni di una gloria sfolgorante, ma nella semplicità e nella povertà dell’incarnazione. È come se Dio, ogni volta che prendiamo l’Eucarestia, venisse a riabilitare le cose quotidiane, a dare senso alle cose quotidiane.
Come dare senso? Col senso che Gesù ha iscritto, iscritto per sempre nell’Eucarestia, nel corpo dato, nel sangue versato.
In questo pane, piccolo pane, splende, sì, splende, ogni volta che lo prendiamo e ne mangiamo, un segno: il segno di un Dio che si dona per la vita del mondo. Un Dio che fa vivere e non distrugge.
E anche tu, nella vita quotidiana, sii tra coloro che fanno vivere, danno segni positivi, non tra gente che distrugge.
Un Dio che si offre liberamente “offrendosi liberamente” -è scritto-: liberamente, per la gioia di farlo.
E se imparassimo anche noi da questo pane la gioia di fare il bene, ogni giorno, unicamente per questo, per la bellezza di farlo?