A una settimana dall’omicidio Floyd la protesta ormai degenera in violenza, e obbliga una quarantina di città americane a mettersi in coprifuoco. L’America, ancora una volta, brucia. Gli episodi si mettono in fila, i singoli punti tracciano una linea di tendenza fatta di violenze i cui protagonisti sono sempre gli stessi: da una parte dei ragazzi neri, dall’altra la polizia. Trayvon Martin, Mike Brown, Tamir Rice, Eric Garner, Freddie Gray sono i casi più noti. Anche questa volta lo schema è lo stesso. C’è Derek Chauvin – l’ex buttafuori, il poliziotto, quello che difende l’ordine, quello macchiato da fatti che dimostrano come egli abbia precedenti violenti – e c’è George Floyd – l’ex buttafuori rimasto senza lavoro a causa del coronavirus, la vittima (ubriaca), che ha tentato di spacciare dollari falsi. È uno schema “sporco”: il poliziotto macchiato dalla violenza e la vittima non del tutto innocente. È uno schema che sembra premiare quelli del “sì, però”. In realtà ci sono altre due chiavi di lettura.
La prima la prendiamo dall’Unione europea. Josep Borrell, ossia il ministro degli esteri dell’Ue, coglie la minaccia posta ai diritti umani. Siamo inorriditi e scioccati dall’omicidio di George Floyd – dice Borrell – un abuso di potere che deve essere combattuto negli Usa e altrove. Tutte le società devono rimanere vigili contro l’eccessivo uso della forza e rispettare i diritti umani: chi è incaricato di proteggere l’ordine pubblico non usi le sue capacità nello stesso modo in cui si è fatto negli Usa arrivando a questa infelice morte. Posizione netta. Se non sono gli Usa a difendere i diritti umani, chi resterebbe poi, nel mondo? Ciò che è in crisi è la linea politica delle istituzioni internazionali, che si fonda sulla logica dei diritti umani.
La seconda la prendiamo invece dai vescovi. Ieri Trump ha visitato un paio di chiese, posando in foto con in mano una bibbia (color nero…). Visite così, mentre tutta l’America parla di razzismo e di violenze della polizia mentre lui scrive cose che perfino Twitter gli censura, sono evidentemente strumentali. L’arcivescovo di Washington, Wilton Gregory, non fa il diplomatico: chiesa abusata e manipolata per violare i nostri principi religiosi. Altrettanto esplicito l’arcivescovo José Gomez, presidente della Conferenza episcopale degli Usa – la Cei americana, insomma – quando afferma che il razzismo equivale ad una bestemmia. Il concorrente di Trump, Jo Biden, pensa amministrativamente e dice che occorre una riforma della polizia. Poi però dice una cosa piuttosto impegnativa e sullo stesso piano del ragionamento dei vescovi: siamo nel pieno di una battaglia per definire l’anima di questo paese. Insomma, è in corso una sorta di battaglia spirituale, tra l’anima conservatrice, suprematista, tradizionalista attraverso il pensiero religioso e l’anima aperta, progressista, umanista. Siccome Trump ha capito che è questo il vero registro della battaglia, si fa vedere in chiesa. Biden, che ha smascherato il gioco, deve però fare qualcosa, se vuole combattere la stessa battaglia: deve definire un orizzonte di senso verso cui guidare l’America del futuro.
Dunque la tragica vicenda di George Floyd è un importante banco di prova nella battaglia che si svolgerà (Covid permettendo) a novembre. In ballo c’è molto di più di un fatto penale, c’è in realtà una questione spirituale, una lettura e la definizione di una meta verso cui questo Paese vuole andare. Kennedy parlava della Nuova frontiera. Occorrerebbe qualcuno che riuscisse a dire e a dare una direzione a un Paese che fatica a ritrovare la propria anima, costretto com’è tra il ritorno a un passato lontano e la paura ad affrontare un futuro incerto. Parafrasando un’intuizione di Luciano Manicardi -. priore di Bose – si potrebbe dire che nelle società dove è in crisi la spiritualità rimane l’odio, il rancore, l’accelerazione, l’immanenza, l’ansia del fare e dell’agire, l’asfissia. Ecco perché le ultime parole di George Floyd – Non riesco a respirare – hanno un significato del tutto particolare.
Roberto Rossini
Fonte: www.acli.it