Noi siamo sguardo. «Se non vedo, se non osservo, se non guardo»: ci sembra che l’occhio sia la parte più nitida e vera, l’organo più vicino al reale, l’unico senso in grado di fotografare quello che esiste davvero. Eppure, in questi tempi di civiltà dell’immagine, dell’apparenza, di Intelligenza Artificiale, dopo le fotografie quotidiane che sempre riprendono una prospettiva tralasciandone un’altra, davvero non sono così sicuro se posso fidarmi ciecamente di quello che vedo. Non il «che cosa» vedo, ma il «come» lo vedo, Lui mi indica. Come guardo il fratello, la sorella. Ed è straordinaria questa sua nuova prospettiva, esasperata fino alla pagliuzza e alla trave, di quanto il giudicare e condannare gli altri e assolvere noi stessi sia scritto nei diari delle nostre vite. Subito mi appresto a far notare la piccola pagliuzza sull’altro, il difetto che sta nel fratello e nella sorella, ma della trave che mi abita dentro, davvero faccio fatica a rendermene conto, a toglierla.
Noi siamo dentro. Tutto parte dal di dentro, niente di ciò che sta fuori è peccato. Occorreranno quasi duemila anni per decifrare questa trave, con la nascita della psicanalisi. «Tutto ciò che ti infastidisce degli altri non è altro che una proiezione di quello che non hai risolto dentro di te», scrive un saggio. Mi chiede di entrare in me stesso, di guardarmi dentro: difficilissimo, perché non sempre troviamo quello che vorremmo. Una cantina e un retrobottega per niente in ordine, in cui non troviamo quell’immagine perfetta, religiosa, di successo, immensa, forte, equilibrata, ideale, che avremmo desiderato trovare di noi. Siamo chiamati ad accogliere anche le nostre travi e macerie, i sentimenti forti, ansie, paure, invidie, meschinerie, infantilismi, aggressività, antipatie, mancanze di amore. Travi su cui pazientemente chinarci, lavorarci come artigiani, anche a volergli bene. Se desidero che qualcosa cambi, quel primo passo deve partire da me, unicamente da me. Non siamo noi i buoni e non sono cattivi gli altri, ma tutti siamo chiamati ad abitare sotto la bellissima tenda della Misericordia.
Noi siamo albero e frutto. Grande scuola è quella degli alberi, così assenti dai nostri orizzonti. Un albero è vita, in grado di trasformare il mondo inanimato, il mondo chimico della terra, dell’acqua, dell’aria, della luce, in respiro vitale. Un albero è più vicino all’umanità di quanto lo sia un animale; entrambi conoscono lo stare ritti in piedi; entrambi hanno le radici immerse nella terra, nella morte, eppure i loro rami si diramano verso il sole. Come gli uomini, gli alberi stanno tra terra e cielo. Un albero rappresenta il ciclo della vita: le stagioni, primavera, estate, autunno, inverno, si manifestano nell’albero di stagione in stagione, da una rinascita all’altra. Un albero è segno della Croce. Noi siamo frutto, siamo ciò che è oltre noi: i nostri figli, il nostro lavoro, il frutto dello Spirito che è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo; contro queste cose non c’è legge, scrive San Paolo. Questa etica, una morale del frutto piuttosto che del dovere, mi fa fiorire. Non il dovere per il dovere, ma il portare frutto. Un Vangelo che mi domanda del frutto attorno a me, più che dell’irreprensibilità che mi ha allontanato dal fratello e dalla sorella.
Dio è Parola, Gesù è Parola fatta carne, noi siamo parola. Davvero non sono solo parole quelle che noi pronunciamo, sono essenziali: sono loro che dichiarano guerra, a dire ti amo, ad abbracciare una vita che nasce, sono loro chiamate a custodire e a far crescere. Sono le parole a dire la nostra fede, anche nel silenzio. Quante parole disumane, quante parole sprecate, quante parole vuote, quante parole violente lungo le nostre strade e nei nostri giorni, quanta poca cura dell’umanità a partire proprio dalle parole, prima forma di violenza. Come Chiesa, dovremmo davvero sentirci tutti quanti un po’ più «poeti», nel senso più autentico del termine: poeta è colui che fa, che crea, colui che rende le parole visibili con le mani e con lo sguardo, che rende la Parola di Dio visibile al mondo. «Le parole comunicano poco e spesso sono pallide ombre di nomi dimenticati. Ma hanno uno straordinario potere. Prendono ago e filo e ricuciono, riparano, rimediano. Forse alla fine le parole servono solo a questo: a guarire». (Fabrizio Caramagna)
Volto a volto, sull’altipiano delle beatitudini, in queste tre domeniche abbiamo abitato un discorso immenso, del tutto nuovo. Intessuto di interiorità, di travi e di pagliuzze, di ascolto profondo di sé stessi. Intessuto di alberi e di frutti. Intessuto di ascolto delle nostre parole. Lì, sull’altipiano, incontro il mio volto, finalmente senza maschere. Lì sull’altipiano, incontro il volto di Dio: i suoi lineamenti sono Misericordia.
Don Andrea Varliero