Chissà se la Bibbia ricorderebbe mai Eldad e Medad, se fossero stati un po’ più puntuali e non si fossero attardati ad arrivare alla tenda dell’incontro per ricevere da Dio una parte dello spirito di Mosè, come invece fecero gli altri settanta uomini eletti… Invece, la prima lettura di oggi ci parla di loro, di questi due uomini (ancor più sconosciuti del Carneade di manzoniana memoria…) che invece di ritrovarsi insieme agli altri per ricevere l’autorizzazione a profetizzare, non giunsero in tempo alla tenda del convegno e restarono all’interno dell’accampamento, continuando comunque a profetizzare. Cosa che suscitò la gelosia di Giosuè, “servitore di Mosè fin dall’adolescenza”, il quale non poteva tollerare iniziative personali che non passassero sotto il controllo suo e del suo padrone; e la gelosia fu il medesimo fattore che provocò la reazione dell’apostolo Giovanni, che voleva impedire a un tale di compiere un esorcismo nel nome di Gesù “perché non ci seguiva”, ossia perché non era del gruppo degli abituali discepoli del Maestro. La saggezza di Mosè (un po’ scocciato, nella sua risposta a Giosuè) e l’insegnamento di Gesù a Giovanni e ai suoi discepoli hanno un aspetto in comune: nessuno può pretendere di avere l’esclusiva su Dio, e nessuno può avanzare la pretesa di farla da padrone nei confronti dello Spirito di Dio.
Mosè è molto pragmatico (“Fossero tutti profeti nel popolo del Signore”), anche perché sentiva sulle sue vecchie spalle tutto il peso della responsabilità di guidare da solo il popolo nel deserto; Gesù va al nocciolo della questione, affrontata sul piano ecclesiale, comunitario (“Chi non è contro di noi, è per noi”), perché sa bene quanta fatica deve affrontare per far comprendere ai suoi discepoli il significato dell’essere suoi seguaci. E il significato è sempre e solo uno, quello che da varie domeniche, ormai, Gesù cerca di inculcare nella mente dei suoi discepoli e di noi tutti: essere cristiani, essere suoi seguaci, non è un privilegio, ma un impegno; non è un onore, ma un onere; non è un prestigio, ma un servizio. E questo lo si capisce nella misura in cui si accetta che Gesù è il Messia venuto non per comandare, ma per servire; non per condannare, ma per salvare; non per escludere, ma per riunire tutta l’umanità in un unico abbraccio intorno a sé, come un papà che abbraccia i suoi bambini e li mette al centro di tutto, proprio come ci ricorda il Vangelo di domenica scorsa.
Uscire da questa logica e ragionare con la logica del dominio, dell’esclusiva e del prestigio non solo crea fratture all’interno di una comunità, ma allontana dal messaggio di Gesù i più deboli (“i piccoli che credono in me”, li chiama lui), quelli che per i più svariati motivi fanno già fatica a credere e, in più, vengono scandalizzati da questi atteggiamenti di gelosia e di esclusività molto presenti anche nella vita delle nostre comunità cristiane. Di fronte ad atteggiamenti di questo tipo, la risposta di Gesù è dura: occorre “tagliare”, eliminare il problema alla radice, estirpare dalla comunità questo stile e questo modo di fare, non per condannare alla rovina eterna chi si comporta in questo modo, bensì perché chi assume questi atteggiamenti è già di per sé morto, privo di vita dentro di sé, si elimina da solo, si esclude da sé dalla vita di una comunità, rimane sepolto nel mare dei suoi atteggiamenti, e non v’è per lui opportunità di risorgere, come un corpo gettato in mare con una pietra al collo, come una mano o un piede tagliati che non possono ricrescere, come un occhio cavato che non può più vedere.
Le immagini del Vangelo di oggi sono davvero forti, ma in una domenica come questa, in un periodo come questo, nel quale molte comunità cristiane riprendono il loro cammino, inaugurano un nuovo anno pastorale, cercano di ripartire, a fatica, dopo un lungo periodo di stallo, sono immagini che ci fanno riflettere e ci chiamano a una profonda conversione pastorale. Quella “conversione pastorale” a cui papa Francesco (e non solo lui) ci richiama continuamente, sin dagli inizi del suo pontificato, e sulla quale c’è davvero ancora tanta, tantissima strada da fare nella Chiesa, a partire dalle nostre piccole comunità parrocchiali e cristiane, a partire dai piccoli ma spesso pesanti atteggiamenti intolleranti ed esclusivisti che mettiamo in atto ogni giorno;
a partire da quel “cosa vuole quello lì, che non è nemmeno di qua?” rivolto a chi vuole intraprendere un cammino di fede e di impegno in una comunità pur non essendovi originario;
a partire da quel “si fa così perché abbiamo sempre fatto così” che impedisce ogni tentativo di rinnovamento;
a partire da quel “l’ho sempre fatto io, non vedo perché debba farlo qualcun altro” che è segno di indebito appropriamento delle cose che sono di tutti;
a partire da quel “si facciano avanti altri, se sono capaci, e io mi faccio volentieri da parte” che in realtà sta a significare “guai a chi ci prova!”, per cui nessuno mai si avvicinerà;
a partire da quel “è una vita che siamo in questa comunità, e ne abbiamo visti di tentativi falliti” che è l’affossamento definitivo di ogni speranza di cambiamento.
E potremmo continuare per ore a citare situazioni che, invece di creare entusiasmo intorno al Vangelo, scandalizzano chi, nella comunità dei credenti, cerca la freschezza del messaggio cristiano e trova l’appiattimento totale su posizioni assodate e rigide che con la novità del Vangelo hanno ben poco a che vedere.
Ora che tutti stiamo programmando le varie attività dell’anno, mettiamo come primo impegno quello della conversione pastorale, quel cambio di mentalità che permetta a tutti, a prescindere dalla loro storia personale, dalla loro poca o grande fede, dalla loro bravura o dalla loro presenza all’interno della storia di una comunità, di sentire che in una comunità cristiana nessuno ha l’esclusiva della fede, e che a tutti – ma veramente a tutti – viene donato lo Spirito del Signore.
Don Alberto Brignoli