XXX Domenica del Tempo Ordinario

Questa, forse, è una delle parabole più sorprendenti di Gesù. I due protagonisti – il fariseo e il pubblicano – vengono tratteggiati con finezza evangelica da Luca. Nel loro modo di pregare si riflette la loro visione di Dio, della fede e della vita. Proviamo a guardarli più da vicino.

Il fariseo prega in piedi, sicuro di sé e dei propri meriti. Non chiede nulla, non attende nulla: non ha bisogno di Dio. È irreprensibile nell’osservanza della legge, forse va persino oltre ciò che gli è richiesto. Le sue opere sono buone, la sua coscienza tranquilla. È, senza dubbio, il modello del credente perfetto.

Accanto a lui, in un angolo, c’è il pubblicano. Non si sente a casa in quel luogo santo. Sa che la sua vita è un disastro, e riconosce i suoi peccati. Non promette nulla, non può farlo. Non può cambiare lavoro, né vita. L’unica cosa che gli resta è affidarsi: mettersi nelle mani di Dio e confidare nella sua misericordia.

Dopo aver narrato le due scene parallele, l’evangelista consegna il commento scandaloso di Gesù: è il pubblicano – e non il fariseo – che torna a casa giustificato. Con queste parole, si sgretolano tutti gli schemi religiosi del tempo.

Il fariseo, perfetto e irreprensibile, non fa altro che esibire i propri meriti. La sua preghiera è completamente autoreferenziale. Invece di rivolgersi a Dio, celebra se stesso e informa il Signore della propria rettitudine e della miseria degli altri. È un uomo ripiegato su sé, prigioniero della propria perfezione. Tutti i verbi sono alla prima persona singolare: la sua preghiera ruota attorno al suo “io”. Il fariseo, poveretto, ha dimenticato la parola più importante della preghiera: “Tu”.

Il pubblicano, invece, torna a casa giustificato perché, non avendo nulla da vantare né da offrire, può soltanto ricevere. Le sue mani sono vuote, e ne è consapevole. È un peccatore, ma compie l’atto più decisivo: entra in punta di piedi nello spazio sacro del “Tu” e si apre alla misericordia di Dio.

Don Roberto Seregni