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Commento al Vangelo della Domeniva IV di Pasqua 26 Aprile

Nelle letture odierne si confrontano due modi di vivere la relazione: da una parte  il desiderio di dominare l’altro, di usare l’altro o il disinteresse dell’altro; dall’altra parte, l’”essere per”: innanzitutto l’essere per di Dio, e, poi, il nostro essere per gli altri.

Due modi ben rappresentati nel Vangelo (Gv. 10,11-18) dal “pastore buono” (alla lettera “bello”)  e dal mercenario. La differenza tra i due è sostanziale ed è questa: al pastore “importa”, al mercenario “non importa” delle pecore.

Chi è il mercenario? “Chi presta la sua opera per denaro” (Zingarelli).  Al mercenario interessa la paga, non le pecore.

La nostra storia, la nostra società, la nostra cultura è in gran parte improntata allo spirito mercenario, in quanto ritiene valore primario il profitto. Spirito mercenario, tradotto in parole povere: per niente non si fa niente; in tutto c’è, ci deve essere, un tornaconto.

Questo spirito mercenario si insinua anche nei rapporti tra le persone, quando si considera l’altro, la persona,  non come valore in sé in quanto persona, ma a seconda di quanto è utile, di quanto serve. Degli esempi? Un anziano viene considerato e apprezzato finché è in grado di accudire i nipoti, ma quando questi sono cresciuti o  lui non ce la fa più? Capita che sia abbandonato nella solitudine. Lo straniero povero non  siamo forse disposti  ad accoglierlo  quando serve, come badante o come operaio per   lavori da noi  rifiutati?

Ci sono poi strutture, anche religiose, autoreferenziali, cioè che tendono prevalentemente a conservare, rafforzare se stesse; e, in vario modo,  usano, sfruttano le persone.

Al mercenario “non importa delle pecore”, cioè dell’altro, gli importa solo di sé.

Abbiamo qualche volta fatto l’esperienza  di non importare a nessuno?  E’ una ferita profonda sentirci non considerati, estranei, di nessun valore per gli altri.

La infliggiamo qualche volta agli altri questa ferita? Siamo un po’  mercenari?

Invece Gesù è “buon pastore”, anzi “bello” (nel testo greco: “kalòs”); “bello” non nel senso estetico, di una bellezza cosmetica, narcisistica, ma perché   in lui rifulge e possiamo contemplare la bellezza del suo agire: la disponibilità a “offrire (alla lettera “deporre”) la vita per le pecore”.

Ecco dove sta il bello! A lui importa delle pecore, si immedesima, fa tutt’uno con loro; non solo non si serve di loro, ma le serve e le serve fino a dare la vita per loro: espressine ripetuta tre volte. Per Gesù noi siamo un tesoro  prezioso  da custodire e, dunque, egli  non sopporta di vederci  disorientati e abbandonati a noi stessi, in preda ai “lupi” dell’ansia, del senso di colpa, della discordia, della disperazione. Vuole liberarci da una vita senza senso, senza direzione.

Il suo amore totale e gratuito genera  “conoscenza”: “conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Il verbo “conoscere” nella Bibbia esprime una relazione esistenziale forte e appassionata, un rapporto di affetto,  di intimità, di condivisione piena della vita.

Tutto si gioca sul piano della relazione, non del ruolo, né della funzione; sul piano dell’amore, non del dovere. Anche la nostra umana esperienza ci dice che si conosce in profondità solo le persone che si amano: “Di chi vuol capire senza amare, o Signore pietà” (cantiamo). La conoscenza d’amore tra Gesù e i suoi è tanto profonda che Gesù la paragona a quella esistente fra lui e il Padre: “Le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Con Gesù partecipiamo alla vita  trinitaria.

Giovanni (II lett.  1Gv 3,1-2) ci invita: ”Vedete quale grande amore ci ha donato il Padre”. E’ un invito a saperci stupire per un amore puro, gratuito, perfino incomprensibile. E ad accoglierlo e imitarlo nelle relazioni con gli altri.

Gesù, pastore bello, ci ama, ci conosce, gli importa di noi, di ciascuno di noi; ma  gli importa anche delle “pecore che non provengono da questo recinto” (allusione al mondo pagano): è pastore universale. Gli importa soprattutto di quelli che sono fuori, lontani, di quelli che non sono “importanti”, non importano a nessuno. Pietro (I lett. At 4,8-12) ricorda che Gesù è la “pietra scartata”. Non ha solo subito lo “scarto”, ha scelto la condizione degli scartati:  deboli,  poveri,  miti, perdenti, quelli ritenuti inutili. Gli scartati proprio da quello spirito mercenario che esalta gli arrivisti, i furbi, gli spregiudicati. Gesù predilige gli scartati, quelli che  non importano a nessuno.

E le nostre predilezioni a chi vanno?

Anche per noi può arrivare il momento in cui  diventiamo irrilevanti, pietre scartate. Allora ci sia concesso di  ricordare che c’è qualcuno a cui importiamo sempre, comunque, che ci “conosce”.

Gesù, “pastore bello” ci chiama ad essere anche noi pastori, a prenderci cura gli uni degli altri con la sua stessa premura.

Oggi, giornata della vocazione, si prega per le vocazioni sacerdotali e religiose; in particolare si chiede che non manchino nella Chiesa  “pastori”,  cioè chi assume il servizio di responsabile della comunità, il servizio del presbitero. Ma senza dimenticare che tutti  noi, noi battezzati, siamo  tutti chiamati, per strade diverse, a vivere la vita come vocazione, risposta d’amore a Dio e ai fratelli. Dovremmo domandarci: quanto mi importa dell’altro, della mia comunità, del Vangelo? Quale servizio, quale contributo posso dare?

La Parola di Dio ascoltata, l’Eucaristia, che ci unisce in comunione con Gesù, sollecitino in noi gli stessi sentimenti del “pastore bello”, la disponibilità a far risplendere la bellezza del dono di sé.

Don Aldo Celli