Taranto non deve morire

Nella vicenda Arcelor Mittal la questione dello scudo penale legato all’attuazione del Piano ambientale negli impianti tarantini ha evidenziato in modo esplicito il conflitto tra sostenibilità ambientale e sviluppo industriale, prioritario in un’area del sud Italia che vive grazie alle acciaierie.

I numeri dell’ex Ilva (parliamo di 20.000 lavoratori, compresi quelli dell’indotto; di 20.000 famiglie…) rendono evidente che non può esistere un sud senza industria, a condizione che questa sia rispettosa dell’ambiente, della salute dei lavoratori e dei cittadini e competitiva. È tristemente paradossale che solo qualche giorno fa la Svimez (l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno) abbia confermato l’allarme per l’ampliamento del divario tra il nord e il sud del Paese (per colmarlo servirebbero 3 milioni di posti di lavoro!) e oggi ci troviamo a discutere del fallimento del più importante investimento industriale degli ultimi decenni nel mezzogiorno e della probabile chiusura della più grande acciaieria d’Europa che, con più di 8.000 lavoratori solo a Taranto, produce l’1,4% del Pil italiano.

Di fronte a questi numeri andrebbe evitata qualunque strumentalizzazione politica e analisi delle colpe. È giusto interrogarci sulle responsabilità, che investono tutte le parti politiche e tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi sette anni (nel 2012 il gip di Taranto ha disposto il sequestro preventivo e il blocco immediato degli impianti dell’area a caldo dell’ex Ilva), ma è prioritario trovare una soluzione soddisfacente alla crisi. Il governo non può permettere che una parte del Paese perda un polo industriale così importante, con il rischio molto concreto di innescare una bomba sociale di dimensioni difficilmente calcolabili. Sarebbe un grave colpo alla nostra economia di oggi ma anche a quella del futuro, perché significherebbe dire ai giovani che fanno bene a cercare fortuna altrove, trasferendo capacità e competenze in altre regioni o in altri Paesi.

Il governo ha fatto bene ad assicurare il ripristino lo scudo penale, garantendo gli impegni presi un anno fa con Arcelor Mittal, e a ribadire che l’immunità non implica una deroga al piano industriale e ambientale già sottoscritto tra le parti. Siamo di fronte ad una partita fondamentale per il Paese e tutti sono chiamati ad un atto di responsabilità. Va trovato un accordo quanto prima, ma non sulla pelle dei lavoratori. Questo deve essere chiaro.

L’amara verità è che tutta questa vicenda deve farci riflettere sul futuro industriale di questo Paese. Il caso Arcelor Mittal, come quelli di FCA, Whirpool e Candy Hoover parlano chiaro: stiamo dismettendo il settore primario e la manifattura industriale di questo Paese, lasciando irrisolta la contraddizione tra ambiente e produzione e allontanando gli investitori stranieri, che devono avere certezza del diritto. Fare investimenti in Italia non può essere un azzardo.

È il momento del coraggio. È quello che i cittadini si aspettano dalla politica, che non può essere sempre l’unica responsabile delle disfatte industriali del nostro sistema ma che ora ha la responsabilità di intervenire sul polo dell’ex Ilva. Non si può più galleggiare qualche anno con deroghe e norme ad hoc ma bisogna guardare con determinazione strategica al futuro, per ricostruire un tessuto industriale moderno e sostenibile.

Roberto Rossini

Fonte: www.acli.it